Cinque secoli fa i padroni degli oceani vollero aggirare le vie intasate della seta per arrivare all’est girando per l’ovest, e vi scoprirono invece l’America. 24 anni fa il Far East Film Festival fece il contrario. Cercò il west(ern) andando diritto nell’estremo est, e vi trovò molto di più. Nacque così, nel 1999, già scoppiettante. Nacque dalla ricerca di una nuova frontiera per i generi più popolari del cinema, com’erano stati il noir, il gangster movie e per l’appunto il western. Una nuova corsa all’oro di cui sono stati tra i principali pionieri in Europa. Il pubblico cominciò ad affluire sempre più numeroso, in una festa che si è rinnovata di anno in anno. Un rito molto lontano da quelli cinéphile dei festival per il cinema d’autore o da quelli glamour delle grandi vetrine dei cambi di stagione per il mercato. L’atmosfera è quella dell’ospitalità, del desiderio di resistere a un’anonima globalizzazione, del reciproco incontro e del cerimoniale di accoglienza, che coinvolge l’intera città di Udine. Ogni sera, anzi per ogni prima proiezione, dal pomeriggio alla sera tarda, il rito si ripropone, tra i cambi d’abito della Presidente Sabrina Baracetti, per le presentazioni ufficiali scandite dal battito di mano regolare di un pubblico partecipe e divertito, che quest’anno ha visto ben quarantamila presenze, tra lo stupore e la commozione degli ospiti che entrano in sala accompagnati da un impeccabile Max Maestroni, mentre in sala si alzano giocosi i cellulari per riprenderli. Coerente con il suo proposito non vi sono giurie di esperti ma è il pubblico a votare alla fine di ogni proiezione, con uno scrupoloso sistema gestito da hostess e steward di sala. Per questa ventiquattresima edizione, 24 sono stati i paesi che hanno presentato quello che il Festival propone come il loro bilancio annuale, arricchito di dati e analisi puntuali in un voluminoso catalogo ricco di contributi. Si tratta di un giacimento inesauribile di generi che un tempo avevano fatto non solo la fortuna del cinema americano, ma modellato l’intera storia del cinema mondiale. Stiamo parlando ormai del primo mercato mondiale, avendo la Cina da sola sorpassato quello statunitense, e con prodotti interni che sempre più si avvicinano a percentuali importanti. Generi e nicchie, tra cui il cinema indipendente o d’autore, di cui si cerca, anche quando come in Cina sono dirette dall’alto, di mantenere una forte differenziazione. Sfogliando il catalogo si passa in rassegna una varietà divertente di sotto generi: hipster comedy, period melodrama, religious horror, grindhouse western, hopping vampire, jailhouse action e così via, sino a temi che fanno parte in modo singolare solo di alcune di queste cinematografie, come la riunificazione tra il nord e il sud Corea, che può dar vita a documentari, commedie esileranti, drammi o ricostruzioni storiche. È il caso dell’evento speciale di apertura del 22 aprile scorso con la presentazione in anteprima mondiale di Escape From Mogadishu di un regista, Ryoo Seung-wan, ripetutamente ospite del Festival di Udine, nel 2011, nel 2013 e con un Forum a lui dedicato nel 2018. I suoi film sono tra quelli più ad alto budget, spesso inclini alla ricostruzione esageratamente spettacolare di episodi storici salienti per l’identità nazionale. Con The Berlin file del 2013 aveva già toccato il tema della divisione nord – sud, ma non andando oltre un facile sviluppo più exploitation e meno spy-story, nonostante le critiche non velate alla presunzione di democrazia sudcoreana. Il film presentato quest’anno non sembra osare di più.
La curiosità, per il nostro paese, è la vicenda narrata che vede protagonista la nostra Ambasciata di Somalia durante le rivolte contro la dittatura di Siad Barre. Per la prima volta gli staff governativi nordcoreani e sudcoreani si trovarono faccia a faccia, costretti a incontrarsi perché entrambi accolti dal nostro ambasciatore Mario Sica, eccezionalmente presente alla proiezione, interpretato sullo schermo da Enrico Iannello. Un incontro con il nostro paese che si è ripetuto con l’altro film di apertura, The Italian Recipe, la seconda coproduzione tra Italia e Cina, dopo quella presentata a Venezia nel 2016, Caffee, dell’italiano Cristiano Bortone, tra i docenti dell’Accademia del Cinema di Pechino. Questa volta è invece la Cina a venire in Italia con il primo lungometraggio della regista Hou Zuxin, di Hong Kong, e per un cast tutto cinese. Ambientato a Roma, non poteva mancare la Vespa per una commedia sentimentale che rifà con humour Vacanze Romane tra immigrati cinesi e loro connazionali arricchiti e volgari. Ritorna, anche se sullo sfondo, il tema della riunificazione tra Nord e Sud Corea in una delle sorprese del festival, Kim Jong-boon of Wangshimni, di una provata documentarista come Kim Jin-yeoul. In passato lei ha trattato temi delicati e scomodi, come le partigiane comuniste, o il naufragio del traghetto Sewol. Questo è un trauma nazionale. Vi persero la vita circa trecento studenti liceali e non mancano film e i documentari, tra cui non è possibile non citare Birthday, di un’altra giovane documentarista, Lee Jong-un, presentato a Udine nel 2019 con grande successo. L’altro trauma nazionale che ricorre spesso negli ultimi anni, e che costituisce anche l’evento che generò un’intera generazione di nuovi registi nati con esso, sono le rivolte studentesche degli anni ’80 e la loro violentissima repressione. Nel 2018, si erano visti a Udine due pellicole eccezionali: Courtesy to the Nation e 1987: When the Day Comes, entrambi sulla rivolta del 1987 contro la dittatura militare di Chun Doo-hwan. Invece nel 2020 è stato un film sulla rivolta di Gwangju del 1980, A Taxi Driver, tra i film più graditi del pubblico, seppure online, basato sulla testimonianza del giornalista tedesco Jürgen Hinzpeter. Il suo taxista, rimasto per anni anonimo, era interpretato da un attore, Song Kang-ho, ormai noto anche al grande pubblico occidentale per la sua interpretazione nel primo film non in lingua inglese a ricevere l’Oscar, Parasite, già vincitore anche a Cannes.
Contrariamente al tassista la protagonista del documentario di Kim Jin-yeoul, la ultraottantenne Kim Jong-boon, è tutt’altro che anonima, ed è una sorta di icona e memoria vivente di quella stagione. Ogni anno centinaia di persone vanno con lei sulla tomba della figlia morta il 25 maggio 1991 in una dimostrazione presso il Cinema Daehan di Wangsimni. Lei, insieme ai figli, prepara ogni anno da mangiare per tutti loro. Nonostante l’età, e il clima non sempre favorevole, con la neve o la pioggia, lei continua a vivere con la sua bancarella di generi alimentari nel mezzo di una grande strada della città, tra i grattacieli. La gente la conosce e lei ha un rapporto particolare con i suoi clienti, a cui concede persino piccoli prestiti senza interesse e termine. Dopo 30 anni arriva un signore che le restituisce i soldi e quando va via insieme alle amiche scopre ridendo che sono il doppio di quanto gli aveva prestato. Sullo sfondo il ricordo struggente della figlia più capace, tanto da assumere il ruolo di leader nel movimento e della vita passata, tra mariti ubriaconi e miseria. Nella cornice di una manifestazione che abbiamo visto essere molto variegata, non mancano gli approfondimenti e le opere di restauro. Quest’anno il posto d’onore è spettato alle Filippine. Oltre al consacrato capolavoro di Lino Brocka del 1975 Manila in the Claws of Light, recentemente restaurato e riproposto in numerosi festival, considerato tra i 100 film più importanti del mondo, viene proposta una retrospettiva di nove film tra vecchi e nuovi. In anteprima internazionale è stato presentato il restauro di uno dei film più censurati della storia del cinema, Manila By Night, del 1980, noto anche come City After Dark, per omettere il nome della città e aggirare le ire della famosa moglie del dittatore, Imelda Marcos, governatrice in quegli anni di Manila. Senza il lirismo tragico di A Speck in the Water, film del 1976 restituito allo splendore dopo esser stato rinvenuto in una biblioteca pubblica di Fukuoka e che aveva ammaliato il pubblico di Udine nel 2019, Ishamel Bernal fa un ritratto corale di un girone infernale. Con sguardo impietoso e a spirale tra i suoi personaggi senza centro, dopo tre ore giunge al risorgere del sole, dove la semplice esposizione di corpi che si ricompongono in esercizi ginnici per le strade di Manila ci offre la meccanica visione senza speranza di un giorno che annuncia un’ennesima sporca notte. Sempre Manila e un altro girone infernale è quello di Neomanila. Dopo l’incursione nell’horror del 2019 con Eerie, Mikhail Red non si limita ad un esercizio di stile (horror ambientati in scuole femminili cattoliche) ma costruisce un film molto solido sulla storia di un bambino iniziato a diventare un killer di spacciatori al soldo della polizia. Vita nei bassifondi anche in Slingshot, del 2007, di uno dei più celebrati registi filippini, già premiato anche a Cannes, Brillante Mendoza. Pedinamento neorealista, durante la Settimana Santa di Quiapo a Manila, di quattro giovani gregari per una malavitosa campagna elettorale. Ed il cinema realista filippino ispira anche registi stranieri, come il britannico Robin Foster, che qui ha ambientato nel 2013 il suo Metro Manila, tra lirismo e thriller di riscatto sociale, sulla storia di un contadino delle risaie che con la famiglia arriva a Manila e finisce in un losco giro di guardie giurate che trasportano valori.
La manifestazione si è chiusa il 30 aprile consacrando ancora una volta Corea del Sud e Cina. Il Gelso d’Oro è andato al primo con il delicato Miracle: Letters to the President di Lee Jang-hoon. Secondo e terzo posto alla Cina con Return to Dust di Li Ruijun, che ricorda i fasti del primo cinema di Zhang Yimou come Sorgo Rosso, e la commedia To Cool to Kill di Xing Wenxiong.