Blognotes 08
Blognotes 16

RISCHIO è il tema del numero più recente di Blognotes 16

Articolo presente in

Il Cinema dei Giovani

di Mario Giannatiempo

Tomaso Aramini regista e direttore della fotografia. Consegue un dottorato di ricerca in film, music, performing arts presso la Leeds Beckett University con una tesi di inter-semiotica cinematografica. La sua pratica artistica ibrida film concettuali e sociali.

Autore di molti cortometraggi, il suo film The Lost Shoes è diventato uno dei documentari più premiati in Italia nel 2020, vincendo tra gli altri London Documentary Film Festival.

Tomaso quando e come è nata la passione per il cinema?

A 16 anni, quando mi imbattei quasi casualmente in una serie di documentari tv realizzati da Paolo Brunatto sul cinema underground italiano degli anni ’70 intitolati “Schegge di Utopia”: un cinema d’avanguardia e liberato, di cui anche se non ne capivo bene i meccanismi sintattici e le implicazioni estetiche, ben rifletteva e nutriva il mio temperamento ribelle. Mi innamorai particolarmente del cinema di Romano Scavolini, il più radicale e politico tra tutti i registi intervistati, con il quale nel tempo ho stretto una profonda amicizia. Spronato dalle sue esperienze, decisi di acquistare una piccola telecamera Hi8, e capire come relazionarmi/contestare il mondo attraverso l’immagine filmata.

HaI frequentato la scuola di cinema a Roma e ti sei poi laureato con un MA (laurea magistrale) in filmmaking, seguito da un dottorato alla Leeds Beckett University. Perché la scelta dell’Inghilterra e quale differenza di qualità o metodo tra l’impostazione registica italiana e quella inglese?

All’epoca l’Inghilterra viveva dell’ultimo singulto della cosiddetta Cool Brittania blairiana. Era un’Inghilterra globalizzata, ma in tumulto, gravida di contraddizioni sociali maturate in 30 anni di liberismo. Sembrava un’Inghilterra già stanca di due anni di tories, di tagli draconiani alla spesa sociale, non a caso le manifestazioni popolari focheggiavano le piazze delle città, dai lavoratori del TUC, fino ai riots dei sotto-proletari londinesi del 2012. Quest’Inghilterra esercitava indubbiamente un fascino magnetico su di me. C’era anche un aspetto particolare, formale, più propriamente cinematografico: la scena indipendente inglese/anglosassone mi sembrava più florida e in buona salute rispetto a quella italiana; a fine anni 2000 si erano di nuovo imposti i kitchen sink dramas (penso a Mike Leigh, il grande Ken Loach, Andrea Arnold): volevo capire come venivano scritti questi film, quali tecniche di messe in scena adoperavano, e come si poteva girare con budget contenuti. All’università, e qui ritorna l’Inghilterra globalizzata, mi incontrai con studenti provenienti da tutto il mondo; certamente ognuno aveva la propria agenda, alcuni erano più realisti, altri più melodrammatici, ma lo scambio di idee, di stili, di visioni fu un’esperienza determinante: scegliendo come specializzazione la direzione della fotografia, ebbi la possibilità di vivere e immaginare le loro storie, capirne i pregi e i difetti, mentre scrivevo e affinavo i miei kitchen sink dramas. Il coronamento di tale lavoro fu scelta tra i saggi di laurea una mia sceneggiaturam scritta con un documentarista francese, Romain Gaussens, frutto di un lavoro di ricerca sul mondo sottoproletario white British e degli ambulanti immigrati di Leeds. Purtroppo, la regista assegnata si rifiutò di girarla, e di quel corto non se ne fece nulla (per ora!). Ma ormai il dado era tratto. Dopo aver vinto una borsa di studio, proseguii i miei studi con un dottorato, dove ebbi modo di approfondire la semiotica filmica e lavorare come direttore della fotografia, preparando altri progetti da regista, alcuni realizzati altri no. Di questi trovo particolarmente riuscito il mediometraggio sperimentale The City Within realizzato con il poeta Roberto Minardi. In conclusione, posso dire che è stata un’esperienza fondamentale. Se oggi posso operare come cineasta indipendente, relazionarmi agevolmente con i mercati esteri lo devo all’esperienza universitaria e lavorativa in Inghilterra.

Locandina delle scarpe dimenticate/Thw lost Shoes a Parigi

I tuoi film sono documentari o piuttosto elaborazioni soggettive di temi che più ti colpiscono? Con gli ultimi film ti stai orientando sul sociale?

Ultimamente frequento assiduamente il genere documentario, credo che si addica al mio tipo di creatività che- per unità degli opposti- è analitica e razionale. Cinema esistenzialista e sociale camminano spesso in parallelo, si intersecano e si ibridano.

In questa fase preferisco il cinema documentario per la sua rapidità, per la sua semplicità d’esecuzione che è una grande ricchezza ed inoltre per ragioni formali: ti permette di superare quella contraddizione rappresentazione/realtà già ben individuata da registi come Dziga Vertov, entrando nella vita, e nei processi storici. Se si può, questa è la mia filosofia pratica, lasciamo la telecamera a chi se ne può servire per lottare ed emanciparsi. Se non si può utilizziamo la finzione, per distillare al meglio il contenuto ed il tema in esso riflesso.

Hai realizzato sia cortometraggi che lungometraggi. In futuro verso quale supporto ti orienterai prevalentemente? Prediligendo quale tematica?

Tutto dipende dalle condizioni materiali di cui mi trovo di volta in volta a operare. Fino ad ora, anche se può sembrare un paradosso, sono stati spesso i film a scegliere me, piuttosto che il contrario.

Se ti devo dire però quale dei due format preferisco, sicuramente la mia preferenza va per il lungometraggio: lavorando spesso su film a tema, la durata permette di incidere in profondità il contenuto e di riflesso muovere la coscienza dello spettatore. Il cortometraggio, che pur è stato negli anni ’70 un grande laboratorio, per come è orientato il mercato, è ad oggi estremamente vincolato al plot e al “twist”, cosiddetto colpo di scena, e tutto ciò mi interessa poco.

A quale dei tuoi lavori precedenti sei più legato e perché?

è difficile scegliere. Ognuno dei film che ho fatto nasce e si sviluppa in una determinata fase esistenziale, profondamente condiviso e vissuto con quanti hanno collaborato artisticamente alla sua realizzazione, ben al di là di logiche di mercato. Vi è quindi un legame affettivo, prima ancora che estetico. Su è questo l’ordine di grandezza che scelgo, sono legato equamente a tutti, sia nei film che ho realizzato come regista, sia in buona parte di quelli da direttore della fotografia.

Tomaso Aramini sul set di Impressions

Come ti appare il territorio pordenonese rispetto a quanto hai potuto sperimentare in Italia e all’estero? Ti senti in difficoltà, bloccato? Ci sono le condizioni per costruire un’aria dedicata al video d’autore?

Su un piano generale il territorio pordenonese ha le capacità logistiche e produttive per sviluppare l’industria cinematografica d’autore. La città è comoda e ben organizzata. Siamo vicini a territori in grande espansione culturale come i Balcani, altri già solidi come l’Austria e la Cechia, più in generale l’Est. Non a caso il mercato When East Meets West a Trieste ha assunto una rilevanza strategica di settore fondamentale. Ci manca però una cultura del fare cinema in modo sistemico, pianificato e autonomo dalle altre industrie del territorio che non si crea in poco tempo. Ci vogliono investimenti, un’infrastruttura e un indirizzo politico adeguato. Dobbiamo formare giovani professionisti, costruire co-produzioni nazionali e internazionali, avere il coraggio di proporre e produrre storie forti, che ben al di là di quanto si possa pensare, sono quelle che in prospettiva attirano più pubblico e superano la prova del tempo.

Quali sono i tuoi progetti in proposito? Intendi fermarti in Friuli o riprendere i tuoi viaggi alla ricerca di contesti più dinamici e vitali rispetto al cinema?

Ho aperto una start-up di produzione cinematografica, Method, che di fatto ha come scopo produrre cinema d’autore guardando alle realtà emergenti produttive a noi limitrofe, partendo da Pordenone. Sto lavorando in doppia veste di co-produttore e direttore della fotografia sul primo lungometraggio di un regista talentuoso e fraterno, Emiliano Locatelli, con Enzo Salvi ed Ernesto Maheiux. Inoltre sono in preparazione del mio prossimo documentario che ho avuto modo di presentare all’Agora Pitching Forum di Salonicco, ottenendo ottimi riscontri e molta curiosità.