Il film “Cléo dalle 5 alle 7” (1962) si apre con una giovane donna, la nostra protagonista Cléo (Corinne Marchand), intenta a farsi leggere i tarocchi da una cartomante per scoprire cosa le riserva il futuro. In particolare una preoccupazione incombente l’attanaglia: sta aspettando il risultato di alcuni esami medici che proprio quella sera le riveleranno se è malata di cancro.
Ecco dunque perché, in balia dell’incertezza, cerca un indizio sul futuro che l’attende, tenta di controllare un fato che sembra scivolarle dalle mani. Il film, diretto dalla regista Agnés Varda, vera icona della nouvelle vague francese, è scandito da una divisione in capitoli che equivalgono al passaggio di tempo tra le 5 e le 7, e segue Cléo mentre riempie queste ore che la separano dallo scoprire gli inesorabili risultati degli esami. Dunque lo spettatore la segue, attendendo impaziente insieme a lei, mentre gira per le strade e i vicoli di una Parigi splendidamente fotografata in bianco e nero.
Queste ore d’attesa però non sono solo un modo per entrare nella vita della protagonista e conoscere parte della sua quotidianità, ma è innanzitutto un modo per accompagnarla durante un percorso esistenziale, nel momento in cui, spaventata da ciò che il futuro le riserva, Cléo si ritrova immancabilmente a dover riesaminare la sua vita.
Particolarmente importante è il modo in cui Cleo rivaluta il suo ruolo di donna in una società che sembra essere interessata solo al suo aspetto fisico. Lei è una donna bellissima, relativamente emancipata che lavora come cantante, ha una bella casa e gode di una buona disponibilità economica, eppure tutto ciò non la rende veramente libera e neppure particolarmente felice.
Ha un amante che durante il corso del film incontra brevemente, ma a cui non rivela nulla dei suoi problemi di salute: con lui è come se Cléo facesse, nelle parole delle filosofa Judith Butler, una performance del genere, forse perché è per lei implicitamente chiaro come la cosa peggiore che possa succederle sia quella di perdere ogni tipo di attrattiva agli occhi degli uomini che la circondano. Occhi – che, beninteso non sono solo maschili – sono rapaci, che in strada la scrutano con insistenza, colpiti dalla sua bellezza e che, forse con un pizzico di soggezione, cercano di catturare un’immagine fugace del corpo di Cléo mentre fluttua per le strade vestita con incredibile eleganza.
Durante la sua vita ella è stata inevitabilmente modellata dalle aspettative degli altri, ecco perché si sente in trappola, inscatolata in un solo modo di essere donna che non le appartiene completamente e che viene messo in discussione nel momento in cui realizza a pieno la fragilità della sua vita minacciata da una brutta malattia (in fin dei conti, per chi ha vissuto fino ad adesso? Per sé stessa o per lo sguardo degli altri?).
Verso la fine del film, quando ormai manca poco prima che si scoprano i risultati degli esami, Cléo incontra un giovane soldato, Antoine (Antoine Bourseiller), che si trova a Parigi per un breve periodo di leva e che, proprio come la nostra protagonista, sta attendendo qualcosa, nel suo caso specifico il momento in cui dovrà ripartire per l’Algeria (non dimentichiamo infatti che siamo negli anni della guerra d’indipendenza algerina).
I due si ritrovano quindi a farsi compagnia, e decidono di vivere e di condividere queste ultime snervanti ore d’attesa insieme, tanto che sarà proprio Antoine ad offrirsi di accompagnarla all’ospedale. Cléo prova, per sua stessa ammissione, ad allungare questo tempo d’attesa, a prolungare il senso d’ansia per paura di conoscere una verità troppo spaventosa che non si sente all’altezza di affrontare.
Ma quando alla fine (e senza troppe cerimonie) il dottore le rivela che è effettivamente malata e che presto dovrà iniziare un ciclo di radioterapia, con sua grande sorpresa Cléo si sente libera, come rivela lei stessa ad Antoine: la paura principalmente dettata dall’incertezza scompare perché Cléo è chiamata – forse per la prima volta in vita sua – a prendere in mano le redini del suo futuro. In “Alla Ricerca del Tempo Perduto” Marcel Proust scrive che: “la saggezza non si riceve, bisogna scoprirla da sé dopo un percorso che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci.”. è un percorso simile quello che vediamo compiere da Cléo, che durante questa sua scomoda attesa riesce a prendere piena coscienza di sé e a liberarsi dallo sguardo ricco di aspettativa – e per certi versi violento – degli altri.