Vado a trovare lo zio nella piccola casetta di campagna annessa alla serra bio di famiglia che la figlia gestisce insieme al genero. Lo zio si chiama Antonio De Nardi, per tutti Toni, 97 anni ben portati di testa. Ci vado con mio padre, due mesi di meno, loro sono come fratelli. Lo zio ama moltissimo stare in questa specie di rifugio in mezzo alla terra. È il suo elemento, la terra. L’ha sempre amata fin da bambino nonostante per aiutare in casa a lavorare la terra – erano coloni e lui era il più grande di cinque fratelli – abbia dovuto rinunciare a proseguire la scuola. Un sacrificio non da poco per lui che ha sempre avuto sete di conoscere e stima per le persone colte ( per i signori però non i sióri, quelli arricchiti!). Tuttavia, ogni occasione è stata buona per imparare per lo zio, anche quelle che non si è proprio cercato.
È il 7 febbraio 2022 quando ci incontriamo. Son passati pochi giorni dal giorno della memoria e so che anche quest’anno, il 27 gennaio , lo zio ha partecipato a un incontro in videoconferenza con una classe di un istituto scolastico del Veneto.
“Cos’hai raccontato ai ragazzi, zio?” gli chiedo. “Ho parlato loro della vita del lager, di quello che si faceva ogni giorno, di come si stava nelle baracche, di quelli che non sono riusciti a tornare o sono morti appena tornati a casa, del bisogno di sapere e non dimenticare.
Son rimasti sorpresi i ragazzi nel sentir parlare uno che è stato veramente in un lager perché sai, se uno va da solo a Dachau per esempio, non capisce dove erano i forni crematori…Ci vuole la testimonianza di chi ci è stato…Gli insegnanti mi han detto che non è facile trovare ancora dei testimoni con la testa a posto!”
“Ci credo! Ma tu sei rimasto in silenzio per tanti anni, zio! Perché? Sarà una trentina d’anni che io ti sento raccontare”. “È vero, devi sapere che quando son tornato dal lager era appena finita la guerra e c’erano tanti problemi. Un giorno son andato con mio papà in un posto e ho cominciato a raccontare, la gente non ci credeva, qualcuno diceva che era colpa nostra se ci avevano deportati. Mio papà mi ha detto ‘lascia stare’ e così non ho più parlato. La gente cantava le canzoni della resistenza, voleva dimenticare, non si ricordavano di quelli che non erano tornati a casa, dei deportati…”
Ma andiamo con ordine. Era il 30 novembre 1944, strada che da Portobuffolè porta a Brugnera, lungo la Livenza. Lo zio, venti anni da compiere a giorni, stava andando in bicicletta a prendere degli addobbi floreali nel parco di Villarda, allora di proprietà del conte Morpurgo, un ebreo triestino, perché doveva arrivare il vescovo.
Una camionetta di tedeschi si ferma e lo carica a bordo, lui e la bicicletta. La bicicletta viene trovata nel fossato poco più avanti il giorno dopo, lui no. Da una casa nelle vicinanze una ragazza si era accorta del fatto (in futuro sarebbe diventata sua moglie!) e anche altri e il giorno dopo avevano avvisato la mamma. Dei 63 ragazzi rastrellati in quei giorni dal comando tedesco-fascista nei comuni di Prata, Brugnera e dintorni, solo 3 son tornati a casa dopo la fine della guerra. Lo zio è uno di questi.
Dopo un passaggio nel carcere di Pordenone e in quello di Udine, tutti, o meglio quelli non fucilati subito, vengon fatti salire in un treno, un carro bestiame diretto in Germania. Qualcuno dei suoi amici riesce a saltare giù dal treno in corsa. Erano riusciti a saltare in un punto in cui avevano tagliato il treno nei pressi di Gemona. Lui non ce la fa, o meglio, stava per saltare ma due fratelli sono saltati giù al posto suo. Va così la vita, loro erano partigiani e avevano più paura.
Questi racconti facevano parte della narrazione familiare. Mia mamma, sua sorella maggiore mancata da meno di un anno, mi raccontava spesso i fatti salienti del suo ritorno come anche il suo silenzio. Quando è tornato, a bordo della croce rossa, era nervosissimo, i suoi capelli eran diventati subito bianchi come il cotone, la faccia gialla e la pancia gonfia per tutti i veleni che aveva mangiato…Il dottore ci diceva di lasciarlo stare. Si riprenderà, Tonino si riprenderà, aveva detto. “Era sempre stato sveglio Toni, diceva mia mamma, come quella volta che aveva costruito una radio con una scatola e un filo calato giù nel pozzo. Il papà e la mamma non ci credevano ma lui lo aveva imparato quando aveva fatto il militare, pochi mesi nel Genio Civile perché poi c’era stato il ribaltòn, era crollato il fascismo.”
“Ma com’è che sei riuscito a salvarti, zio?” “Fortuna, cara, tanta fortuna! Ho avuto fortuna fin dall’arrivo nel campo. Dachau era un campo di concentramento da dove si inviavano i deportati in altri campi di lavoro. Era però anche un campo di lavoro con i forni crematori. Tanti morivano, il lavoro era sfibrante, disumano, eravamo vestiti poco e mangiavamo poco e male. C’erano deportati di tante nazioni francesi, polacchi, cechi e altri oltre agli italiani, non c’erano solo ebrei. Appena arrivati ci hanno spogliato, faceva un gran freddo, ci hanno messo una divisa a strisce e rasati. Io ero il numero 135.489, che vuol dire che erano passati là 135.488 italiani prima di me, avevo stampato la I di “italiano”. Gli italiani avevano una rasatura diversa da quella degli altri, dagli ebrei, per esempio, che erano rasati a zero. A noi facevano una specie di solco in testa simile a quello dei “nazi-skeen”. Era per distinguerci: noi eravamo dei traditori, dei banditi, perché avevamo girato le spalle ai tedeschi invece di rispettare l’asse Roma- Berlino-Tokio. Io anche di più se vuoi perché, appena crollato il fascismo, me n’ero tornato a casa a piedi da Bologna…Comunque, appena arrivato al campo ho incontrato un italiano, di Padova, che stava spalando neve, tutto fradicio dato con delle scarpe di tela ai piedi, mi ha detto: quando ti chiedono che lavoro fai, non dire che fai il contadino, sennò ti capita come a me…E infatti, quando mi hanno chiesto qual era la mia professione, gli ho detto che facevo il meccanico…In fondo io sapevo aggiustare biciclette! Ho avuto fortuna, tanta, perché così mi han messo a lavorare con le macchine. Mi hanno mandato anche a Buchenwald, nel sottocampo di Ulm, a lavorare in una fabbrica che produceva attrezzature per la guerra”.
Poi si sofferma a lungo con mio padre a parlare delle tante conoscenze comuni, dei vari compagni di ventura rastrellati come lui, molti persi di vista dopo il primo raduno nei carceri di Pordenone e di Udine, di quelli ritrovati alla fine e di quelli incontrati nel lager, delle amicizie fatte. E in questa conta di chi è morto quasi subito, di chi è tornato a casa ma è morto poco dopo perché si è messo a mangiare troppo (il cibo degli americani ) e di chi invece è sopravvissuto come lui, si sofferma su due fratelli meridionali la cui storia è conoscenza comune fra lo zio e mio padre.
“Lucio e Lauro Miccio erano persone studiate, uno avvocato, l’altro anche aveva studiato legge, ma in campo facevano la stessa nostra vita disperata. Siam diventati amici. Io e Lucio avevamo una bella voce e c’era un capo tedesco che ci chiedeva di cantare canzoni come “Mamma” e altre dell’epoca. Talvolta si commuoveva a sentirci cantare, ci diceva che anche lui aveva un figlio della nostra età in guerra in Italia e ci dava un pezzo di pane nero. Sono stato fortunato…C’erano deportati di tutte le nazioni ma noi italiani e i francesi ci comportavamo in modo più distinto degli altri. Anche se venivamo trattati come bestie, noi ci sedevamo a tavola nella baracca a mangiare la brodaglia che ci davano per cibo, non mangiavamo sulla branda come tanti altri…per cercare di conservare un po’ di dignità”.
“E il prete di Maron, Don Eugenio Marin? – interviene mio padre che è del luogo – anche lui è stato a Dachau, vero?” “Sì, ma lui è stato più fortunato perché è arrivato in campo che era quasi primavera. Era accusato di aver ospitato partigiani in canonica ma gli avevano fatto fare il sarto, un lavoro pulito…Quando sono arrivati gli americani, lui voleva che partissi subito con lui ma io non ce la facevo, ho aspettato il convoglio successivo…”.
Mio padre poi racconta che la nonna Anna, mamma dello zio, è andata a chiedere notizie a Don Eugenio una volta arrivato a casa perché in paese si era aveva saputo che anche lui era stato in Germania. “Sì, Tonino l’ho visto! È vivo e attende convoglio” aveva detto alla nonna che aveva avuto bisogno, poi, di chiedere a mio padre se poteva fidarsi di una tale notizia.
Per tutti i sette mesi della sua assenza non chiudeva mai la porta di casa la sera “Perché chiudo fuori un figlio” raccontava mia madre.
“Ma c’erano camere a gas a Dachau, zio?”
A Dachau c’erano sei forni crematori ma erano ben protetti da una siepe alta, noi non sapevamo che ci bruciavano le persone. “Ma cosa pensavate?”
“Niente di buono, niente di buono, le persone morivano come mosche…Ma sai, quando il cervello riceve poco cibo non si ha neanche tanta forza per pensare…
Quando sono arrivati gli americani nel campo, io non avevo più forze, se fossero arrivati due giorni dopo non ce l’avrei fatta…Ci siamo messi a camminare ma a un certo punto io non ce la facevo più a camminare. Mi ero disteso vicino a un castello, ricordo, ma a un certo punto ho visto gli americani che passavano, ho alzato una mano e uno di loro si è accorto, ha detto ‘è vivo, è vivo!’ e così mi han caricato nel convoglio verso l’ospedale di Bolzano. Era un convoglio di mezzi lungo chilometri e chilometri ma molti fra i sopravvissuti erano messi troppo male, non ce l’hanno fatta a riprendersi. Io però son scappato dall’ospedale di Bolzano, racconta. Volevo tornare a casa”. E a casa ci è arrivato nel giugno del 1945 e quella sera anche mio padre – che da poco frequentava la famiglia – è stato invitato a fermarsi a cena.
“Tu poi ti sei iscritto all’ANED, zio. Ti è servito?” L’ ANED è l’Associazione Nazionale Ex Deportati Politici”.
“Certo! Come ti ho detto, all’inizio la gente non credeva ai nostri racconti. Insieme ai sopravvissuti e ai familiari dei deportati abbiamo trovato la forza di raccontare, il coraggio di diventare testimoni della disumanità e assurdità che avevamo vissuto nei campi di sterminio. Abbiamo fatto tante iniziative, soprattutto viaggi di studio nei campi con i ragazzi delle scuole. E messo qualche monumento che serve a ricordare. Una volta che sono tornato a Dachau in un viaggio studio, ricordo che c’era una grande fotografia di Hitler con i suoi occhi spiritati lungo il muro. Io avevo un ombrello in mano e mi è venuto spontaneo, passando davanti a questa foto, mettere il manico dell’ombrello in un occhio! Non è possibile che tante persone siano andate dietro a un uomo dagli occhi così spiritati…”
“Fatto bene, zio! Ma, secondo te, i ragazzi riescono a capire?” “Ma sì anche se non è facile, io ho cercato di raccontare le cose che ho vissuto e le brutture che ho visto. Tante volte me le sogno di notte sai…Sono andato tante volte nelle scuole, è importante la cultura! Sono andato varie volte in Germania con gli amici dell’ANED, sono rimaste alcune belle amicizie con i compagni di campo, o i figli, amicizie che non si cancellano più”.
E mi racconta un episodio di quando, dopo tanti anni dal ritorno a casa, si trova in una banca della zona e riconosce il nome di un suo compagno di lager nel nome del direttore.
“Ho chiesto a un impiegato di potergli parlare ma questi non vuol sentire ragioni, ‘assolutamente no, bisogna prendere appuntamento per parlare con il direttore’. Io mi ritiro ma, quando vedo che non c’è nessuno, mi avvio verso la stanza del direttore, busso e…’Toniiii’, ci siamo abbracciati, mi ha fatto sedere e ci siamo messi a ricordare. L’impiegato si è accorto, è venuto dentro ed è rimasto con un palmo di naso…Amicizie vere!”
“Sei anche diventato famoso, zio – aggiungo – ho letto qualche articolo sui giornali che parlava di te” “Sì, qualche volta hanno scritto stupidaggini, altre volte hanno scritto la verità” Ci tengo che scrivano perché è importante è non dimenticare, ricordare anche quando noi non ci saremo più e imparare ad apprezzare il valore della libertà.”