La mostra ospitata alla Galleria Harry Bertoia di Pordenone, organizzata dal Comune e dall’Ordine degli Architetti P. P. C. di Pordenone, vuole raccontare l’opera di Giannino Furlan, un architetto che con la propria opera ha contribuito a definire l’immagine attuale della città friulana, con una serie edifici ormai parte della memoria collettiva che di rado vengono associati al suo autore, come spesso accade ai progettisti se escludiamo dal campo le cosiddette archistar.
Giannino, laureato all’IUAV di Venezia all’inizio degli anni Sessanta, ha sin da subito collaborato con lo zio Mario Scaini, progettando diversi condomini, tutti caratterizzati dal rivestimento in klinker di diverse tonalità di marrone. I materiali e il carattere di questi edifici consentono di tracciare un parallelo immediato con il professionismo colto milanese, testimonianza di una vocazione della fiorente borghesia industriale dell’epoca che cercava di aumentare, attraverso l’architettura, il proprio status e quello della propria città. È proprio nella committenza e nel rapporto che l’architetto instaurò con i suoi clienti che vanno cercate le ragioni e le matrici culturali degli edifici di Giannino Furlan. Il marcato riferimento all’architettura di Frank Lloyd Wright – una costante delle residenze private progettate dall’architetto negli anni Settanta – può essere considerato infatti come una mediazione tra riferimenti personali e un’immagine condivisa dalla committenza, che nelle pareti rivestite con mattoni a vista e nei grandi serramenti in legno vedeva contemporaneamente soddisfatte la ricerca di modernità, di tradizione e di artigianalità.
Se tale atteggiamento risulta evidente nelle residenze private, negli edifici commerciali e nei pochi interventi pubblici realizzati dall’architetto si può notare la stessa matrice organica, ridotta però alle sole questioni tettoniche ( ad esempio con una distinzione netta tra elementi orizzontali e verticali, tesa ad instaurare una dialettica tra elementi portati e portanti), e definita in prevalenza da superfici scabre in cemento a vista.
L’architettura di Furlan non va però considerata solo come un tributo all’opera di Wright, ma come una rilettura personale di uno dei momenti del dibattito culturale che impegnava allora gli architetti già nelle aule universitarie, ed influenzato in particolare dall’azione di Bruno Zevi, come raccontano le testimonianze degli amici e colleghi Meneghello, Posocco e Zanfagnini, pubblicate nel Catalogo edito da Giavedoni editore.
Scorrendo il regesto delle opere, una selezione di 100 edifici di cui la solo la metà è esposta nei tavoli della mostra, risulta evidente come l’architettura di Furlan abbia assorbito contaminazioni eterogenee nel corso dei trent’anni di attività dell’architetto, tragicamente scomparso nel 1997, a testimonianza di un atteggiamento culturalmente aperto e di una notevole abilità di rielaborare linguaggi e forme, in grado di far dialogare elementi dell’International Style con citazioni postmoderne o dell’opera di Otto Wagner e di Adolf Loos, in un ambito vicino ai temi del regionalismo critico.
Proprio la difficoltà di rappresentare l’attività dell’architetto uscendo dalla tradizionale distinzione stilistica per fasi, ha suggerito un percorso per tipologie di edifici con una disposizione libera dei materiali d’archivio, orientato a raccontare soprattutto i modi in cui l’architettura veniva pensata e rappresentata, e più in generale, quello che era il mestiere dell’architetto. Anche l’allestimento si rifà a quelle modalità artigianali proprie del lavoro, che si esprimeva attraverso schizzi, proiezioni, prospettive, ma anche con numerosi dettagli costruttivi, tutti disegnati pazientemente a mano su grandi tavoli da disegno.
Da questo punto di vista, la mostra può essere considerata come un espediente per raccontare il lavoro di architetto in un passato non troppo lontano, ma così radicalmente superato, e farli conoscere al pubblico più giovane che ha perso quel legame con la materia (carte, lucidi, cartoni, retini trasferibili, ecc.) sostituito dalla grafica digitale.
Alle pareti 4 gigantografie introducono le tipologie di edifici trattati, mentre un fregio fotografico continuo mostra le architetture costruite attraverso le fotografie di Stefano Tubaro realizzate all’epoca della costruzione degli edifici, e riprodotte in bianco e nero.
Il ruolo della fotografia e lo stretto legame che essa produce con l’architettura, o meglio con ciò che noi percepiamo dell’architettura attraverso la fotografia, è al centro della riflessione prodotta dalla sezione dedicata a 7 fotografi: Mattia Balsamini, Marco Citron, Giovanni De Roia, Stefano Graziani, Riccardo Maria Moretti, Massimo Poldelmengo, Max Rommel, a cui è stato chiesto di leggere liberamente l’opera e la figura di Furlan, che ha costruito un discorso autonomo all’interno della mostra, così come l’installazione video realizzata da Daniele Puppi che riporta il visitatore alla biografia dell’architetto, con un opera di forte impatto emotivo.