A Locarno Pardo d’Oro alla carriera per il grande direttore della fotografia friulano
Alla 74ma edizione del Festival di Locarno, uno degli appuntamenti cinematografici in agosto più significativi, il Pardo d’Oro alla carriera viene assegnato a Dante Spinotti, direttore della fotografia friulano, universalmente famoso ed apprezzato nel mondo.
Un premio alla sua folgorante carriera, peraltro ancora in corso, che diventa un’occasione per Spinotti di ripercorrere, fra annotazioni, ricordi, e aneddoti, quattro decadi della settima arte.
Che effetto le fa ricevere un premio alla carriera?
Mi fa molto piacere ovviamente. Il premio alla carriera è un po’, un riconoscimento a due facce. Da un lato la bellezza di veder riconosciuto il proprio lavoro, l’impegno di anni e anni, la tua consistenza professionale, se vogliamo chiamarla così; e dall’altro qualcosa che però appartiene al passato, alle cose fatte. Ma il passato è anche molto bello. Non sono certo il più bravo direttore della fotografia ma sono certamente quello che ha ricevuto più premi alla carriera di ogni altro mio collega. Solo quest’anno ne ho già ricevuti tre: dall’associazione dei critici cinematografici di Hollywood, dal festival Le giornate della luce di Spilimbergo e ora dal 74mo Locarno Film Festival dove verrà presentato il film Where are you diretto da mio figlio Riccardo Spinotti e da sua moglie Valentina De Amicis. Un’opera prima che abbiamo prodotto in famiglia. È il nostro regalo di nozze. C’è chi regala un appartamento ai propri figli, noi borghesi ad Hollywood regaliamo la possibilità di fare un film. E di farlo con attori come Anthony Hopkins, fresco Oscar quest’anno con The Father – Niente è come sembra, con il quale intrattengo un’amicizia ventennale, dall’Hannibal Lecter di Red Dragon passando per Slipstream – Nella mente oscura di H. (Slipstream) (2007) dove Hopkins era sceneggiatore, regista, attore e autore delle musiche. Hopkins è una persona di grande saggezza, umanità, intelligenza e rispetto verso gli altri. Devo confessare che tutta la comunità cinematografica è stata particolarmente generosa nell’aiutarci: oltre a Hopkins anche Ray il figlio di Jack Nicholson, Camille Rowe, e tanti altri. Tutti hanno dato una mano.
A proposito di bilanci come è stato il suo percorso da Muina a Roma e poi Hollywood?
Ogni estate trascorriamo un periodo a Muina, dove abbiamo la casa di famiglia, un solido punto di riferimento. Sono nato a Tolmezzo ed ho vissuto i primi anni in provincia di Rovigo in mezzo alla campagna. Un mio zio udinese, Renato Spinotti, che aveva avuto una carriera in giro per il mondo come documentarista, operatore, direttore della fotografia, nel suo peregrinare era finito a Nairobi in Kenia. A me da ragazzo non piacevano il greco e il latino, per non parlare della matematica, della chimica e così via. Così la mia famiglia, disperata, dopo aver finito la prima liceo classico, visto che l’unica passione che avevo era la fotografia, mi spedì da questo mio zio in Africa. Da allora la mia vita è sempre stata una vita in movimento. Che è esattamente quello che consiglio ai giovani oggi: mai fermarsi. Da giovane ho imparato l’inglese essendo il Kenia un’ex colonia britannica e questo mi è molto servito. Un tempo, infatti, non era frequente conoscere un’altra lingua e conoscere l’inglese mi ha dato grossi vantaggi. In Rai chiamavano me come assistente ogni volta che c’era un regista o un attore inglese. Oppure, se c’era da fare un giro in America con Enzo Biagi, mandavano me
Dante Spinotti in un ritratto del fotografo Paolo Jacob. Courtesy Archivio Dante Spinotti
Dall’analogico al digitale, cos’è cambiato nel cinema?
L’arrivo del digitale è stata una vera e propria rivoluzione, paragonabile all’avvento del sonoro nel cinema. Nelle arti, dalla pittura alla musica, puoi fare l’opera e correggerla, modificarla continuamente finché l’artista non è soddisfatto. Nel cinema, invece, quando avevi girato una scena era quella e basta. Vedevi il risultato dopo alcuni giorni, una volta sviluppata la pellicola, ma quella era, non potevi cambiarla se non rigirandola. Ora la tecnologia digitale ti permette di vedere il prodotto finito nel momento stesso in cui lo stai facendo e questo ti da una enorme sicurezza nel lavoro. Io ho subito abbracciato questa novità fin dall’inizio. Oggi la tecnologia ha raggiunto una qualità indistinguibile dalla pellicola e il digitale ha cambiato il modo stesso in cui si gira un film. Tutto è molto più semplice e facile. Con il digitale è sufficiente mantenere lo standard ed archiviare nei nuovi supporti mentre la pellicola si degrada rapidamente essendo composta da materiali biologici. Già dopo due settimane la pellicola subisce trasformazioni.
Lei ha lavorato molto sia in Italia che negli Stati Uniti. Quali sono le differenze più eclatanti?
Nel cinema d’oltre oceano c’è una attenzione e una cura quasi maniacale alla sceneggiatura. Il film non parte fintanto che tutti non sono pienamente convinti dell’opera. Il potere del regista, naturalmente, varia in base alla sua forza. Negli Studios ci sono anche una serie di funzionari che conoscono a fondo il cinema a differenza dell’Italia dove, fatte le debite eccezioni, spesso i produttori sono interessati unicamente al denaro, agli appalti, agli anticipi della Rai. Negli Usa i budget sono molto alti per cui c’è una grande attenzione al piano di lavoro, a mantenere tutti i costi entro le cifre previste. Tutto funziona con grande precisione. Per contro il vantaggio in Italia è che tutto procede come in un gruppo di amici. Una troupe di sessanta persone riesce a stabilire un clima interessante e divertente che è impossibile quando si arriva a ottocento persone coinvolte, come negli Stati Uniti. Insomma in Italia può essere più interessante dal punto di vista creativo, della costruzione delle immagini anche se debbo dire che oltreoceano il cinema indipendente sta prendendo sempre più piede. Io stesso lavoro con Deon Taylor regista indie di grande talento, col quale ho fatto tre film ed un altro è in cantiere. Con i mega budget della serie Marvel significa lavorare ad un film che è già stato girato, tutto è previsto, ogni scena è già stata provata con gli stuntman, le inquadrature strette o larghe già decise a priori e il direttore della fotografia fa semplicemente il consulente, si occupa solo del look.
A proposito di Cortesie per gli ospiti (The Comfort of Strangers) di Paul Schrader (1990) Giovanni Grazzini sul Corriere della Sera scrisse: «La Venezia del film, colta nelle sue struggenti tinte giallo-arancio e nell’angoscia dei suoi labirinti, è una delle più affascinanti che si siano viste sullo schermo, cornice e personaggio essa stessa della storia scritta da un Pinter in stato di grazia.» …
Non conoscevo questa dichiarazione di Grazzini, mi fa molto piacere che abbia colto il senso del mio lavoro. Ho partecipato recentemente alla riedizione in bluray del film. Schrader è un autore tormentatissimo, si rimette in discussione continuamente, si arrovella sulle scelte. Per quel film mi disse che voleva una Venezia bizantina, qualcosa che portasse i protagonisti verso una specie di straniamento e su quelle indicazioni lavorai per ottenere un risultato il più vicino possibile alle esigenze del film. Usai inquadrature strette, claustrofobiche o a pelo d’acqua. Credo di aver interpretato le intenzioni del regista correttamente.
Come si svolge normalmente la collaborazione con il regista?
Fra regista e direttore della fotografia molto spesso si stabilisce un rapporto di amicizia oltre che di stretta collaborazione. Un regista come Michael Mann ad esempio vuole controllare tutto, è molto pignolo. I sopralluoghi sono accurati e le ricerche precise in ogni dettaglio. Quando si lavora con un regista che sa esattamente cosa vuole, quale storia vuole raccontare, tutto diventa estremamente semplice.
Nel 1981 con Minestrone di Sergio Citti con Ninetto Davoli, Franco Citti e Roberto Benigni il suo primo film da direttore della fotografia …
Lavoravo alla Rai di Milano e un giorno venne Marco Ferreri che doveva girare Yerma, un film per la televisione con Edmonda Aldini, Franco Citti e Michele Placido. Aveva bisogno di un giorno di riprese, andai e girai con il 16 mm. Quando vide le riprese rimase sorpreso e colpito dalla qualità delle immagini, nettamente superiori all’ampex che usavano solitamente per i programmi televisivi. Stava preparando Chiedo asilo con Roberto Benigni e mi chiese di curare la fotografia. Avevo famiglia, la Rai non mi concedeva l’aspettativa di due mesi e non ero pronto ancora alle dimissioni per cui dovetti rinunciare.
Passò poi per gli studi televisivi milanesi Elio Petri che stava lavorando a Le mani sporche, una miniserie televisiva con Marcello Mastroianni e Anna Maria Gherardi. Aveva sentito parlare di me e segnalò il mio nome a Sergio Citti che stava preparando Minestrone mi convinse a lasciare la Rai a Milano e scendere a Roma. Fu un set difficilissimo, mi chiamavano il milanese appena arrivai in questo set romanocentrico con la responsabilità della direzione della fotografia. Le riprese furono lunghe e complesse e nonostante le tensioni, frustrazioni, ansie emotive alla fine restammo amici. Sergio Citti era un grande narratore sicuramente, aveva questo istinto nel raccontare le storie che è la chiave di volta di ogni regista: il saper raccontare con gli strumenti del film. Lui aveva questa istintiva capacità.
Ritroverà poi nel 2002 di nuovo Roberto Benigni per Pinocchio …
Pensando che io avessi maturato negli Usa una certa esperienza di film complessi e con molti effetti speciali, Roberto Benigni mi chiamò a curare la fotografia di Pinocchio. Mi ritengo molto fortunato ad aver lavorato con lui, Benigni è un personaggio non trasformabile, nel senso che la sua umanità, la sua cultura lo rendono unico. L’errore che commise è stato quello di voler fare un film molto vicino al testo di Collodi. Ma il film non è un libro e il testo collodiano è anche piuttosto datato. Fu molto bello però girarlo. Rientrato in America, al termine delle riprese, incontrai Dino De Laurentis che mi chiese se il film faceva ridere e davanti alle mie perplessità sentenziò: «Se non fa ridere non funziona!». E così fu. Soprattutto fuori dell’Italia.
In Italia lei ha tenuto a battesimo molti autori. È stato direttore della fotografia nel primo film di Gabriele Salvatores Sogno di una notte d’estate (1983); nel film d’esordio di Giacomo Battiato Paladini: storia d’armi e d’amori (1983) con Cristaldi produttore; ha tenuto a battesimo la prima regia di Luciano De Crescenzo in Così parlò Bellavista (1984). Come sono andate queste prime volte?
Salvatores pur essendo al suo primo film era molto “smart”, come dicono in America, conosceva benissimo il testo che aveva diretto in teatro per almeno trecento repliche. Era estremamente creativo e si fidava molto di me. Con Giacomo Battiato siamo cresciuti praticamente assieme, lui mi portò nel mondo del cinema. Con Luciano De Crescenzo e il suo Così parlò Bellavista girato interamente a Napoli è stato per me una specie di passaporto di assoluta forza. Un’esperienza utile ancor oggi. Fra poco, infatti, inizierò a girare un documentario molto interessante su Napoli con Trudie Styler, la moglie di Sting, dove curerò gli aspetti visivi.
Nel 1985 ha lavorato con Salvatore Samperi in un film scandalo per l’epoca, girato interamente nella vicina Chioggia, quel Fotografando Patrizia con Monica Guerritore …
Lavorare con Samperi è stato molto intrigante, così come lavorare in una Chioggia che conoscevo molto bene è stato intrigante. Come è stato intrigante altresì lavorare con Monica Guerritore. Un giorno dovevo filmare una scena sotto il tavolo in cui la mano di lui si appoggiava sul ginocchio di lei e io con l’esposimetro dovevo verificare la luce per il diaframma andando proprio sotto il tavolo. Lei mi chiese se la cosa mi turbava. Con professionale aplomb risposi che in quel momento la pellicola era il mio unico centro di interesse. Fu un set molto divertente anche se all’epoca il film suscitò un grosso scandalo.
Nel 1986 lavora con Liliana Cavani in Interno berlinese (1985) con l‘affascinante Gudrum Landgreber. Vince anche un Ciak d’Oro per la migliore fotografia per questo film …
Attrice e donna di grande classe e fascino la Landgreber. Forse in questo film della Cavani, sempre molto elegante e suggestivo, l’atmosfera calda e sensuale per le scene di sesso si ispiravano un po’ alla fotografia di Vittorio Storaro. Forse!
La metà degli anni ottanta corrisponde anche con la sua prima esperienza totalmente hollywoodiana. Entra nel cinema americano dalla porta principale con Manhunter di Michael Mann (1986) prodotto da Dino De Laurentis, produttore longevo e dinamico esponente del miglior cinema italiano anni 50/60, ex marito di Silvana Mangano ed ex socio storico di Carlo Ponti. Trasferitosi poi a Hollywood agli inizi degli anni ’70 …
Devo a De Laurentis se ho fatto quello che ho fatto in America. Mi chiamò ricevendomi nel suo ufficio all’ultimo piano di quella che oggi si chiama Trump Tower. Ricordo uno studio enorme e lui seduto dietro una grande scrivania. Aveva fondato in North Carolina uno studio cinematografico e cercava direttori della fotografia che non fossero statunitensi. Gli piaceva il fatto che io conoscessi l’inglese e firmai con lui un contratto biennale. Persona squisita, leale, corretta con una capacità incredibile di prendere rapidamente decisioni da cui poi non tornava più indietro. Aveva anche una forza molto determinata di rigenerarsi, di ricominciare da capo. Si occupava di tutti gli aspetti legati alla produzione dei suoi film. A distanza di sedici anni da Manhunter mi chiamò per la fotografia del remake Red Dragon di Brett Ratner (2002), dove questa volta Hannibal Lecter, diversamente dal precedente, aveva la faccia di Anthony Hopkins. Un film all star con Ralph Fiennes, Edward Norton, Harvey Keitel e Emily Watson e prequel del pluripremiato Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme.
Ancora per Dino De Laurentis nel 1986 ha avuto la direzione della fotografia in Crimini del cuore (Crimes of the Heart) di Bruce Bereford con un cast tutto al femminile: Sissy Space, Diane Keaton, Jessica Lange …
Portai a De Laurentis una scena di Interno berlinese che a lui piacque talmente per cui decise che avrei curato la fotografia del film di Bereford. Tre attrici bravissime, tre professioniste spiritose. Per una scena in cui le tre attrici discutono attorno ad un tavolo dovevo illuminare i tre diversi primi piani cercando di non far trasparire che ognuna di esse era illuminata per conto proprio ma che ci fosse un’omogeneità fra loro tre. Il risultato fu che da allora mi venne affibbiata la nomea di essere un direttore della fotografia che toglieva dieci anni alle attrici. Del resto lavorare con le belle signore è ancora una delle cose più affascinanti nel fare cinema; illuminare la bellezza femminile è una di quelle cose che giustificano il perché siamo al mondo. Mi ha molto affascinato ultimamente Elizabeth Olsen, con la quale ho lavorato ad un film per la televisione di enorme successo negli Usa.
Con Michael Mann ha stabilito un sodalizio, lungo e proficuo: dal già citato Manhunter – Frammenti di un omicidio (Manhunter) del 1986 a L’ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans) del 1992, a Heat – La sfida (Heat) del 1995, a Insider – Dietro la verità (The Insider) del 1999 e Nemico pubblico – Public Enemies (Public Enemies) del 2009 …
De Laurentis mi ha catapultato in un cinema di assoluta disciplina, di assoluto rigore. Mann lasciava all’aiuto regista gridare, tenere il set. Lui sovraintendeva e controllava tutto ed aveva un rapporto totale con gli attori. Un rapporto anche difficile alcune volte. Michael Mann, se vogliamo, è una specie di dottor Jekyll e mister Hyde. Sul set si trasforma mentre nella vita normale è molto più colloquiale. Con Mann forse è scattato quel qualcosa per cui istintivamente sentivo il suo modo di girare come mio. Aveva fatto emergere qualcosa in me di inespresso fino a quel momento. Fare un film con Michael Mann è una vera e propria sfida con sé stessi e con le proprie possibilità. Capire quello che lui ha in mente non è da tutti. Ogni film fatto con lui è una totale immersione sul mondo che viene affrontato di volta in volta.
In L’ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans) ha lavorato con Daniel Day-Lewis famoso per la sua intransigente pignoleria. Il film ebbe anche lusinghieri apprezzamenti per la fotografia …
Daniel Day-Lewis è stato un compagno di lavoro straordinario, L’ultimo dei Mohicani era il suo primo impegno importante negli Stati Uniti. Lui è di una preparazione che rasenta il maniacale. Su ogni dettaglio di sceneggiatura annotava e si preparava con caparbietà. Si allenava per sparare col fucile correndo. Tutte cose inimmaginabili in un attore italiano.
Per la direzione della fotografia lei ha avuto la prima nomination agli Oscar con L.A. Confidential, regia di Curtis Hanson (1997) dove poi vinse l’Oscar Kim Basinger come miglior attrice non protagonista …
Los Angeles è bella da fotografare oggi e ancor più affascinante vestita da anni ‘40/’50. Ho usato un formato super 35mm anziché lo scope per avvicinarmi il più possibile al formato delle foto d’epoca di Robert Louis Frank. Col regista Hanson è stato interessante lavorare in quanto ricercava un’aderenza quasi filologica al racconto. Con l’affascinante Kim Basinger solo nelle ultime due scene ho avuto l’illuminazione su come avrei dovuto esattamente fotografarla. Nonostante questo, però, vinse ugualmente l’Oscar con L.A. Confidential.
Nel contempo però lei ha intelligentemente tenuto anche un fruttuoso rapporto col cinema italiano. Due film con Ermanno Olmi, La leggenda del santo bevitore (1988) Leone d’Oro a Venezia oltre al David di Donatello e Ciak d’Oro per la miglior fotografia a lei e Il segreto del bosco vecchio (1993) …
Ho conosciuto Ermanno Olmi da ragazzino. Sono stato suo assistente per il film E venne un uomo in quanto segnalato da Mario Rigoni Stern, che era molto amico di Olmi, e che a sua volta era cugino di mio cognato. Passammo due, tre settimane filmando seminaristi in giro per la bergamasca poi io partii militare e non portai a termine la collaborazione. Molti anni dopo Olmi mi contattò per girare un film a Parigi con Rutger Hauer, La leggenda del santo bevitore appunto. Esperienza bellissima. Mi chiamò poi per girare un film a Cortina Il segreto del bosco vecchio ma qualcosa non funzionò come doveva; anche la lavorazione non fu così entusiasmante come quella parigina.
Nel 1995 lavora alla fotografia di Pronti a morire (The Quick and the Dead) regia dell’adrenalinico Sam Raimi, un film che annoverava un cast inimmaginabile oggi, con star come Sharon Stone, Leonardo Di Caprio, Russell Crowe e Gene Hackman. Un western che voleva rendere omaggio a Sergio Leone …
Con Sam Raimi abbiamo avuto un rapporto eccezionale. È un regista che costruisce i suoi film su storyboard molto precisi, come i fratelli Coen. Per questo omaggio al western italiano ci divertimmo moltissimo a girare i celebri primissimi piani alla Sergio Leone. La costumista Judianna Makosky venne a Roma in cerca dei costumi originali, questi impermeabili lunghi. Raimi voleva dare al film una valenza quasi paradossale, anche a tratti caricaturale, estremizzando le situazioni. Si scontrò con Sharon Stone che era anche produttrice del film. Raimi non aveva ancora la forza che ha acquisito ora, dopo i tre Spider-Man che ha diretto. La Stone, donna simpaticissima oltre che bellissima, voleva però intervenire sulla lavorazione, forte della sua posizione di produttrice. Sharon Stone si rifiutò di girare una scena con Russell Crowe in cui lei, a seno nudo, faceva gonfiare la patta di Crowe fino a far letteralmente saltare i bottoni dei jeans. Un po’ alla volta il senso complessivo del film venne stravolto. Ogni paradosso annullato tanto che alla fine risultò, purtroppo, un film ibrido.
Nel 1995 firma anche la fotografia di L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore con Sergio Castellitto. Com’è passare da Sam Raimi a Tornatore …
Sono salti grossi. Con Tornatore non ci siamo parlati per almeno tre quarti del film. Ognuno cercava di far vedere di essere più bravo dell’altro. Mettiamo la macchina da presa lì e non là, etc. Un friulano e un siciliano a confronto! Poi alla fine siamo diventati amicissimi. Tornatore è un grande talento, un notevole narratore. Castellitto poi mi aveva chiamato per fare un film con lui ma precedenti miei impegni mi hanno impedito la nuova collaborazione.
Lei ha lavorato nel 1996 anche con un altro mito americano che è Barbra Streisand in L’amore ha due facce (The Mirror Has Two Faces) con la Streisand davanti e dietro la macchina da presa nel duplice ruolo di attrice e regista …
Con Barbra Streisand il vero problema era averla davanti la macchina da presa non tanto dietro la macchina come regista. Persona amabile, democratica, la sera si andava a casa sua a mangiare il gelato a discutere ma sul set era un dramma, decine di prove, di test, di dubbi, di complicazioni ed io con la scusa del Natale, l’unica volta in vita mia, sono andato via dal set.
Ha mai rinunciato a un film per poi pentirsi?
Sì, sì. Fra i tanti anche la proposta di Sam Raimi di fare il primo Spider-Man!
C’è un regista col quale avrebbe voluto lavorare?
Avrei pagato per fare un film con Kubrick pur sapendo della sua estrema pignoleria e precisione. Una volta, rientrando dagli Stati Uniti, mi dissero che Federico Fellini mi aveva cercato per un film. Purtroppo subito dopo si ammalò e il film non prese mai il via. Fellini aveva la fama di essere un regista costoso non per il suo onorario ma per come girava. Ma era un genio assoluto.