Oltre di questo, io voglio che tu consideri come le lingue non possono essere semplici, ma conviene che siano miste con altre lingue. Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, ed è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro, perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a sé in modo che par suo…(Niccolò Machiavelli. Dialogo o discorso sopra la lingua.1524).
Perché se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo di farlo per timore o del Casa o del Crescimbeni o del Villani o di tant’altri…(Alessandro Verri. Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca. 1784).
Orráit, orráit! Awanagana! (Nando Mericoni / Alberto Sordi. Un Americano a Roma.1954)
Puort’ ‘e cazune cu nu stemma arreto, / na cuppulella cu a visiera aizata, / passe scampanianno pe’ Tuledo / comm’ a nu guappo pe’ te fa’ guardá.
Tu vuoi fa’ l’americano, / mericano, mericano / sient’ a mme chi t’ ‘o ffa fa ?…
(Renato Carosone. Tu vuó fá l’americano.1956).
Niccolò Machiavelli lo aveva capito 500 anni fa e Alessandro Verri lo ribadi 240 anni dopo: il contatto linguistico è inevitabile ed è anche utile e necessario, a patto, però, che i vocaboli provenienti da altre lingue siano accolti nella lingua italiana dopo essere stati convertiti nell’uso suo, cioè italianizzati.
Per secoli con l’inglese abbiamo fatto così: abbiamo prodotto bistecca da beef steak, boicottaggio da boycott, grammofono da gramophone, telefono da telephone e abbiamo prodotto calchi come grattacielo da skyscraper, pallamano da handball, arrampicatore sociale da social climber e risemantizzazioni dì parole già esistenti, come Parlamento sul modello di Parliament o Camera sul modello di Chamber, in cui il significato originario dei vocaboli italiani è stato esteso alle istituzioni politiche seguendo l’esempio dell’inglese. Il contatto, insomma, ha arricchito la nostra lingua, senza stravolgerne le regole fonetiche, ortografiche, morfologiche.
Ora, se il nostro fosse un paese normale, continueremmo a fare cosi, adeguando la nostra lingua alle esigenze della modernità, adattando parole straniere o coniando neologismi a partire da materiale linguistico autoctono; un’Accademia con compiti simili a quelli dell’Académie française o della Real Academia de España, investita di compiti normativi e di indirizzo vigilerebbe sull’evoluzione della lingua e stampa, televisione, istituzioni amministrative e politiche si adeguerebbero alle sue indicazioni, mentre al singolo cittadino, al di fuori dei contesti formali e istituzionali, nessuno contesterebbe il diritto di parlare come crede.
Ma l’italia evidentemente non è un paese normale. Perciò quando di fronte alla valanga di anglicismi che investono la nostra lingua qualcuno solleva il problema della sua tutela, viene accolto con risatine idiote o con l’evocazione del fantasma del fascismo. E l’Accademia della Crusca, che si fa un vanto di avere compiti esclusivamente descrittivi, è come un medico che formula delle diagnosi perfetta, ma si rifiuta di indicare una terapia. Intanto i dizionari registrano e legittimano migliaia di anglicismi non adattati, che si insediano nel linguaggio della quotidianità, della pubblicità, dell’informazione, della politica.
Le cause del numero e della frequenza sempre più elevata di vocaboli inglesi non adattati che penetrano nell’italiano del 2000 sono molteplici.
Con parole o espressioni come hair stylist, location, food & beverage, wedding planner ad esempio siamo di fronte a casi di “anglocosmesi” che non rispondono a nessuna necessità ma rivelano soltanto il provincialismo, l’autocolonizzazione mentale e il complesso di inferiorità di chi li adotta.
Ma il vero problema, la testa d’ariete dell’itanglese sono i giornalisti di stampa e TV, che in passato hanno svolto un ruolo fondamentale nell’affermare l’italiano come lingua nazionale e nel proporre gli adeguamenti lessicali richiesti dalla modernità, mentre da alcuni decenni, si sono trasformati consapevolmente in agenti attivi al servizio dell’itanglese. Green, sold out, reading, reunion, report, meeting, economy ecc. uccidono verde, tutto esaurito, lettura, riunione, relazione, incontro, economia perché i giornali sono diventati veri e propri collettori di liquami linguistici, che non inquinano una “purezza” che nessuno rivendica, ma distruggono la trasparenza della comunicazione cui tutti avremmo diritto.
Quanto alle istituzioni, che avrebbero almeno il dovere di rivolgersi ai cittadini in italiano, si va da un’amministrazione comunale che distrugge decine di alberi quasi secolari per fare spazio a un Polo young a governi e Parlamento nazionali che, dopo un timido inizio con il ticket per le spese sanitarie introdotto nel 1989 dal ministro Francesco De Lorenzo, oggi ci bombardano con jobs act, spending review, welfare, question time e altre amenità del genere. Il dizionario AAA Alternative agli Anglicismi (https://aaa.italofonia.info/), disponibile gratuitamente in rete ne registra complessivamente circa 3.500.
Tuttavia lo sviluppo più gravido di conseguenze di quello che già nel 1987 Arrigo Castellani in un celebre articolo chiamava “morbus anglicus” è l’introduzione dell’inglese come lingua di insegnamento in sempre più corsi di laurea in numerose città italiane, con la conseguenza di privare gli studenti del nostro paese del diritto di ricevere un’istruzione superiore nella loro lingua madre, di fare dell’inglese la lingua di accesso privilegiata alla conoscenza e in generale alla cultura “alta” e di ridurre l’italiano in una condizione subalterna, relegandolo alla sfera della comunicazione familiare e informale. Insomma abbiamo appena superato la storica diglossia italiana lingua/dialetto che se ne profila una nuova inglese/italiano destinata a relegare la nostra lingua in una posizione di inferiorità.
Potremmo dire che da Niccolò Machiavelli e Alessandro Verri stiamo passando a Nando Mericoni/Alberto Sordi e a Renato Carosone, ma ci asteniamo dal farlo dal momento che al punto in cui siamo c’è poco da ridere e molto da piangere, dato che senza una svolta radicale che si misuri con la dimensione politica del problema la lingua italiana non sarà in grado di difendersi dallo tsunami anglicus.
E noi semplici “parlanti” italiano che cosa possiamo fare di fronte allo scempio quotidiano e ai programmi di declassamento della nostra lingua? Non molto, per la verità, perché è chiaro che senza una svolta che porti a un’assunzione di responsabilità delle istituzioni e all’adozione di una politica linguistica adeguata, sul modello di quanto già avviene in Francia, in Spagna, in Svizzera e in tanti altri paesi democratici, il declino della lingua italiana sarà fatalmente inevitabile.
Di questo abbiamo discusso a Pordenone il 21 marzo 2024 con il professor Domenico De Martino, dantista dell’università di Pavia e collaboratore dell’Accademia della Crusca, e con Antonio Zoppetti, studioso dell’interferenza dell’inglese sulla lingua italiana, in un vivace incontro che forse ha prodotto nei presenti una maggiore consapevolezza del problema.(https://youtu.be/qGOpo6R8HHY?feature=shared)
Se così fosse ognuno di noi potrebbe dare il suo piccolo contributo, facendo attenzione a evitare inutili anglicismi, scrivendo ai giornali per protestare contro l’opacità dell’informazione in itanglese, pretendendo che la pubblica amministrazione e la sanità pubblica si rivolgano a noi in italiano, stigmatizzando gli effetti ridicoli dell’anglomania quando se ne presenta l’opportunità.
In fondo tuteliamo il parmigiano-reggiano, il pomodorino del piennolo del Vesuvio e la ricchezza del nostro patrimonio agro-alimentare, tuteliamo il paesaggio e i centri urbani come componenti essenziali della nostra storia e della nostra identità culturale: perché non dovremmo tutelare con un intervento di ecologia linguistica anche il nostro idioma che ne è un elemento fondamentale?