Blognotes 08
Blognotes 16

RISCHIO è il tema del numero più recente di Blognotes 16

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Rischio in ambito sociosanitario

di Carlo Gobitti, medico, conversa con Ivana Truccolo

Conosco Carlo Gobitti avendo entrambi lavorato al CRO di Aviano per numerosi anni. Da oncologo radioterapista si è sempre dimostrato persona interessata a collaborare nelle attività di accoglienza e informazione ai pazienti. Accetta con interesse la proposta di una conversazione sul tema del rischio in ambito sociosanitario perché, dice, il tema lo intriga.

“Partirei dalla definizione di rischio, ovvero possibilità che si verifichi un evento diverso da quello previsto, programmato o desiderato. Pensiamo a un alpinista che ha l’obiettivo di arrivare in cima alla montagna: sa che c’è la possibilità, il rischio, di non arrivarci oppure, peggio ancora, di cadere, farsi male o anche di morire. Ho pensato al rischio sanitario quindi, non tanto in termini di rischio sociale, ma individuale. Il rischio di un rocciatore o di un subacqueo o di chiunque fa attività che comportano un certo livello di rischio – spesso anche preventivamente calcolato – è un qualcosa che uno decide di correre. Quando si tratta della salute invece è diverso, è un rischio che tu non decidi di correre. È vero che ci sono comportamenti a rischio: per esempio un forte fumatore sa che rischia il cancro, ma il più delle volte, il rischio di una malattia è generico, è qualcosa di inatteso, una tegola che ti cade in testa. E’ la vita in quanto tale che comporta la possibilità di ammalarsi. Mi viene in mente la figura di Giovannino Agnelli, nipote di Gianni Agnelli, erede della Piaggio. La vita era stata molto generosa con lui: bello, prestante, colto, aderente al profilo che la tradizione familiare aveva costruito negli anni. Poi accade che, ancor giovane, muore di cancro. Nel bivio, la vita decide di farlo andare da quella parte, quella non prevista, non programmata, non desiderata.”

Foto di Zeno Rigato

Cosa fare quindi quando la vita prende quel bivio inatteso?
“Mi fai pensare a un episodio accadutomi più di quarant’anni fa, ancor prima di laurearmi. Durante un viaggio a Tunisi, in una libreria iniziai a chiacchierare con il giovane titolare che mi parlò a lungo della cultura araba e a un certo punto citò un proverbio che recitava più o meno così:

“Se vivi la vita attraverso i problemi, facendoti dominare dai problemi, la vita non sarà più tua ma dei problemi, tu sarai in balia dei problemi anche quando questi non ci sono materialmente”

È ovvio che non devo fumare, né esagerare nel bere o nel mangiare, fare una vita il più possibile sana, ma questo riguarda lo stile di vita cui ognuno dovrebbe attenersi per stare bene comunque. Per il resto, inutile fasciarsi la testa prima di romperla, angosciarsi per i problemi prima che accadano o che forse non accadranno mai. Si sa che possono capitare ma è meglio essere molto concentrati a fare la nostra vita. Altra questione è il momento in cui ci venga diagnosticata una malattia grave, potenzialmente mortale. Data la mia esperienza professionale e umana, mi viene da pensare soprattutto alla diagnosi di cancro, quando il rischio si gioca sostanzialmente fra le due possibilità: guarire o non guarire. E credo che la possibilità di guarire la si mantenga nella propria testa anche quando le evidenze dicono il contrario, perché ci sono esempi rari di casi “miracolosi” che sfidano le leggi della statistica o perché sopravvive la speranza che all’ultimo momento ci sia qualche scoperta che ti permette di prolungare la vita. Questo mi ha portato a pensare alla trasformazione. Ho cominciato a leggere proprio in questi giorni “Un altro giro di giostra” di Tiziano Terzani. Ecco, Terzani ha saputo trasformare l’evento negativo che gli è capitato (la diagnosi di cancro) in un’opportunità di ricerca, di profondità, di evoluzione, di vita vissuta intensamente. Ecco, la capacità di trasformare gli eventi negativi in opportunità è un grande dono, lo dico in senso laico!”

Come fare questo, cioè sfruttare le opportunità che offrono gli eventi negativi, anche quando questi eventi
negativi sono drammatici?

“Non lo so, non è automatico e non accade subito, so solo che quando si riesce a invertire il modo di vedere, a non farsi dominare dai problemi, si vive e si fa vivere meglio. Il rischio di vivere gli eventi negativi con un senso di colpa è un altro elemento ricorrente in molti ambiti, nello sport per esempio, ma anche nella malattia e in altre situazioni.
Questo è dannoso, non aiuta, e nel caso della malattia è importante la presenza di professionisti umanamente sensibili oltre che ovviamente tecnicamente esperti. Le parole sono importanti, forse noi medici non ci rendiamo abbastanza conto del potere delle parole o, peggio, talvolta può accadere che alcuni se ne rendano perfettamente conto ma le usino per dominare e trarre vantaggi anzichè essere di aiuto.
Ma vorrei tornare al concetto di rischio come situazione di pericolo percepita da una persona con la diagnosi di cancro e in particolare della paura paralizzante di fronte al dilemma di una scelta, Per esempio, quando si tratta di spiegare ai pazienti che vi è la possibilità di partecipare a uno studio clinico.
Semplificando un po’, possiamo dire che gli studi clinici sono un tipo di ricerca medica che serve a verificare se una nuova terapia può essere più vantaggiosa di quella standard o di un placebo. Non è facile spiegare perché le persone spesso temono ci sia il rischio di essere trattate come cavie. La parola “sperimentazione” non aiuta quindi è fondamentale illustrare in maniera dettagliata e comprensibile come funzionano gli studi clinici e quali sono i vantaggi nonché gli eventuali rischi. Solo così il paziente si sente tranquillo e libero nella scelta e si instaura un rapporto di fiducia reciproco fra medico e persona ammalata. Non esistono infatti trattamenti efficaci che non comportino il rischio di effetti indesiderati e solo un rapporto sincero può permettere di fare insieme un percorso che porta a stare il meglio possibile”.

E come vedi il rapporto ospedale-territorio? Spesso chi lavora in ospedale fa il possibile per “rimettere in sesto”
una persona ma non si rende conto che tutto il lavoro fatto è a rischio senza una “continuità assistenziale” di cui
molto si parla ma poco si pratica.

È vero, accade talvolta che chi lavora in ospedale sappia poco di come funzionano la medicina e i servizi sociosanitari del territorio. Manca un trait d’union consolidato che crei continuità fra la lettera di dimissione e i servizi domiciliari.
In una regione piccola come la nostra, demograficamente più piccola di Milano e con una tradizione di buona sanità, sia ospedaliera che territoriale, questa continuità non si è ancora sviluppata in modo rassicurante per i cittadini.
Invece che puntare sulla integrazione fra i vari ospedali e servizi, sia specialistici che generali, si è coltivata una competizione non virtuosa: fra strutture, fra servizi, fra province, fra territori.
Da parecchi anni è evidente lo iato esistente fra la visione di sviluppo di coloro che prendono le decisioni in campo sociosanitario e le reali esigenze dei cittadini e degli operatori sociosanitari, questi ultimi sempre più soli a fare un lavoro complesso misurato più in numero di prestazioni che in qualità dell’assistenza.
I dirigenti delle strutture per di più non hanno, e quindi non trasmettono, senso di appartenenza e questo è uno dei grandi problemi. Nella nostra regione, la provincia di Pordenone, che fino a pochi anni fa era trainante anche nel campo della salute, ora è in grande sofferenza.

A maggior rischio sono soprattutto le persone con malattie croniche o cronico-degenerative che abbisognano di cure integrate, non solo sanitarie, e le categorie fragili, persone con problemi psichici, affetti da dipendenze o da varie forme di disabilità.

foto di Zeno Rigato

Tuttavia c’è un fiorire di centri medici, diagnostici, le strutture private crescono come funghi…

Non è un caso: là dove il servizio pubblico non dà risposte, il privato trova il suo spazio naturale da occupare, ma se il rapporto fra pubblico e privato non sarà governato, ci sarà davvero un grosso rischio sociosanitario non solo per chi non ha soldi o assicurazioni ma anche per chi non sa destreggiarsi adeguatamente, trovare le corrette informazioni nel mare magnum della Rete e delle ragnatele.

Si dice che c’è un problema di sostenibilità dovuto all’invecchiamento della popolazione, soprattutto.
È vero, io non sono un esperto di economia sanitaria e non saprei indicare le soluzioni, ma c’è una forte attenzione su questo tema: nella nostra regione per esempio è attivo il Network Salute FVG composto da professionisti della sanità e del sociale con lo scopo di portare contributi documentati al dibattito sul futuro dei servizi regionali. E poi c’è la realtà del terzo settore con associazioni di volontariato anche interconnesse e molto attive. Nella nostra esperienza comune, sappiamo che possono essere di grande aiuto innanzitutto per i cittadini ma anche per le organizzazioni della salute.

Bene Carlo, abbiamo spaziato liberamente parlando del rischio sanitario sia in termini individuali che sociali.
Abbiamo un messaggio conclusivo?
Conviene ricordare che ogni rischio, quando si realizza come manifestazione negativa e non desiderata, si porta dietro anche opportunità che vanno colte per mitigarne gli effetti. Se a livello di individuo servono qualità caratteriali e uno sforzo culturale, a livello di società ci vuole una grande visione condivisa.