Il dolore è una sensazione che accomuna tutti gli esseri umani, dal primo ginocchio sbucciato, alla cotta non ricambiata, alla prima insufficienza scolastica. Negli ultimi anni mi sono resa conto che il dolore è stata una componente importante della mia adolescenza, che mi ha sgretolata, ma che mi ha dato anche il modo di ricostruirmi con le mie forze. La pandemia del 2020 ha fatto vacillare le mie fondamenta essenziali, rinchiudendomi tra le quattro mura casalinghe.
La didattica a distanza mi è stata stretta, non nutriva il mio bisogno di relazionarmi, di chiedere spiegazioni, di intervenire, di sbagliare per imparare, di permettermi di creare nuove amicizie, proprio il primo anno di liceo. Mi sentivo un po’ sola, rimuginavo su ciò che ero e ciò che poteva riservarmi il futuro. In quella situazione così statica però ho reagito: uscivo nei boschi della mia zona, mi godevo i momenti con la mia famiglia, cucinavo e mi allenavo in casa, ritrovando così una sorta di routine, per me essenziale. Poi gradualmente hanno riaperto la scuola, le attività, i luoghi di incontro e tutto mi sembrava tornare alla normalità. Sembrava, perché in realtà una piccola parte di me si era persa per strada e io non me ne ero nemmeno accorta. Nel 2021, e quindi non ancora salvi dal virus, la fissazione sul mio fisico, sul mio ventre non perfettamente piatto divenne sempre più pressante, fino al crollo. In pochi mesi mi fu diagnosticata l’anoressia nervosa.
Ricordo bene come la mia voglia di sparire e la privazione del cibo divennero direttamente proporzionali, come persi l’interesse per tutto ciò che amavo, come al centro di tutto dominava il controllo di ciò che ingerivo. Ebbi un crollo del peso vertiginoso, persi la capacità di fare un discorso compiuto poiché il mio cervello non riceveva abbastanza carburante.
Fu il mio primo incontro con il primario della Pediatria di Pordenone che mi fece aprire gli occhi: se il mio cuore batteva ancora, ero più che fortunata. Mi resi conto solo successivamente che il supporto fondamentale era stato quello della mia famiglia, di mio padre e di mia madre che, tra lacrime e rifiuti, mi spinsero a lottare, anche quando volevo lasciarmi andare. Più del ricovero di tre mesi, più delle visite continue, ciò che mi aiutò a guarire, oltre ad una grande volontà personale, fu proprio l’ambiente familiare unito.

Dopo quasi due anni dall’entrata in quel tunnel oscuro fui dichiarata guarita, ero rinata finalmente, ma ancora non sapevo che le mie nuove certezze sarebbero state capovolte pochi mesi dopo. Appena iniziata la quarta superiore, dopo aver ripreso a svolgere tutte le attività che amavo e che mi definivano adolescente, i miei genitori dissero a me e a mio fratello che avrebbero iniziato una terapia di coppia.
Lì, su due piedi, ricordo perfettamente il mio tonfo al cuore, il sangue che divenne improvvisamente freddo e io che mi pietrificai pensando: “Come ho fatto a non accorgermene? Com’è possibile?” Nel mese di dicembre dello stesso anno decisero di separarsi. Per me fu un duro colpo, ciò che era stato il porto sicuro della mia intera esistenza, dall’infanzia, si stava sgretolando. Ingoiare quella pillola amara fu davvero complicato, ero appena guarita da una malattia mortale, avevo ritrovato il mio equilibrio e ora il mio castello di carte era stato distrutto da un forte vento. Inizialmente mi colpevolizzai, perché credevo di essere stata la responsabile, ma gradualmente cambiai visione. Nonostante questa acquisizione di consapevolezza però, dovevo abituarmi a vivere in un nuovo assetto familiare, capire quando ero a casa di mio padre e quando invece da mia madre, dimenticarmi l’immagine della famiglia tradizionale che avevo sempre vissuto. Dovevo far fronte ad altre difficoltà, come accettare di essere incline alle dipendenze, ma iniziavo a riconoscere alcuni campanelli d’allarme sui quali sono capace ad agire.
Ho compreso che sono stata capace di diventare la risorsa essenziale per me stessa, che la mia determinazione e resilienza mi hanno permesso di superare tutto e di vivere a pieno gli attimi, di fare scelte importanti, come lavorare per un’intera estate, scoprendo una nuova dimensione che mi interessa molto. Anche se oggi sono spesso insoddisfatta di me, so di dare il massimo in ogni cosa che faccio e per quanto la vita sia imprevedibile, so che quello che conta è riuscire a essere “una clessidra, che, ogni volta viene capovolta e ricomincia da capo”.
Ed è una cosa bellissima.
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