Blognotes 08
Blognotes 16

RISCHIO è il tema del numero più recente di Blognotes 16

Articolo presente in

Perché il legame di coppia può diventare tossico

di Andrea Flego, psicoterapeuta

Dico all’amore come desidero che dipinga la mia anima/Perderlo e ritrovarlo ogni giorno/Un giusto equilibrio fra dolore e gioia/Una bianca nuvola che vola leggera attraverso il tempo.

“Finchè morte non vi separi” recita una formula usuale nel matrimonio. Questa formula, prima che un carattere religioso, contiene in sé un elemento antropologico, presente in molte culture, che sancisce la necessità sociale di mantenere unita la coppia anche quando è a scapito di uno dei membri, più frequentemente della donna. Ed è elemento fondante della cultura maschilista, solo parzialmente mitigato da aggiustamenti moderni come il rivolgersi ad entrambi assegnando loro formalmente “pari dignità”. In realtà, l’asserita, per quanto non sempre dichiarata, superiorità del maschio nasconde una sua intrinseca debolezza. Nella mia esperienza conosco più donne che sanno vivere da sole che maschi che lo riescano a fare serenamente. Il concetto della superiorità del maschio, è profondamente radicato nell’antropologia, cioè nel comune modo di pensare e di vedere il mondo e la vita, e quindi nella mente di molte persone. Viene poi inconsciamente rafforzato dai modelli del romanticismo comune, uno fra tutti il “sei mia”, che, se le parole sono pietre, sancisce in modo pre-razionale il concetto di avere la “proprietà” di un’altra persona. Esiste anche un corrispondente “sei mio” che però nei fatti si rivela tendenzialmente meno pericoloso. Né la psicoanalisi, pur nella sua modernità, aiuta a superare questo problema quando nella relazione affettiva, definisce l’altro come “oggetto d’amore”. 

Su un altro versante, quello della “passione”, le cose non vanno meglio. Il concetto di “amore” come oggi comunemente inteso, pare si sia consolidato col romanticismo, quando è stato identificato tout court con la passione, e spesso con la passione erotica. Molta musica leggera, ma anche molte opere liriche e letterarie, sono permeate da questa identificazione. Ma, come dice Jonah Lehrer (1) la passione, l’infatuazione non è pienamente amore, ma è solo “il suo volubile precursore”, e può essere vista come  “uno zircone rispetto a un diamante vero”.

Però la passione, vista come elemento fondamentale della relazione, ha giustificato spesso nell’immaginario collettivo, e talvolta anche nelle sentenze, dei “raptus” perpetrati contro la persona, solitamente donna.  E questi tre elementi, la “fragilità” negata del maschio, la “proprietà dell’altro” nell’amore, e la “passione” come elemento caratterizzante la relazione, se vissuti in modo acritico e automatico, rappresentano a volte una premessa alla tossicità del rapporto. Quando uno dei due cerca di sciogliere il “legame” che non la/lo fa felice, specie se è consolidato da tempo, questa tossicità può esplodere. E le conseguenze possono essere particolarmente gravi se a farlo è la donna, come continuamente ci rammenta la cronaca quotidiana. Il meccanismo psicologico che, a mio avviso, scatta in taluni casi di violenza sulla donna è l’unione, fortemente emozionale e, per contro, scarsamente razionale, di questi tre elementi, in cui la debolezza del maschio agisce da detonatore. Il maschio si sente in grave pericolo nelle sue sicurezze ancestrali, sia quelle esistenziali, ma anche quelle materiali. Vacilla la propria capacità di “conquistare” e garantirsi una donna per sé. Egli avverte un possibile drastico peggioramento della qualità della vita nel futuro, e talvolta una grave perdita di “accudimento” e  di “sesso dovuto”. E tutto questo viene vissuto come un’ingiustizia, un “tradire regole ataviche”, di cui la donna, come facile capro espiatorio, viene vissuta come responsabile.

Panchina-contro-la-violenza-di-genere

Ma torniamo un attimo indietro. Quando una coppia si forma, si stabilisce una sorta di accordo, potremmo chiamarlo “contratto”, il più delle volte prevalentemente implicito, basato spesso solo sulla “passione erotica”. Implicito perché all’inizio la conoscenza reciproca è sommaria e basata soprattutto sugli aspetti migliori di entrambe le persone. La frequentazione e poi la convivenza rendono sempre più esplicita questa conoscenza, mentre la passione, com’è fisiologico che sia, scema più o meno lentamente. E le persone, o almeno una delle due, possono rendersi progressivamente conto dell’inadeguatezza del rapporto rispetto alle aspettative iniziali. A quel punto è necessario che subentri, oltre alla passione, anche un “amore razionale”, una capacità di adattamento all’altro, accettato anche nei suoi lati meno piacevoli, oppure, quando è il caso, una capacità reciproca di capire e accettare che il rapporto può non portare un sufficiente grado di felicità per entrambi, e che è meglio scioglierlo. Adattamento consapevole o separazione consensuale possono essere facilitati se entrambi riescono a prendere atto che la coppia si basa su due “soggetti d’amore”, in cui nessuno è “oggetto”, e che un accordo reciproco, un “contratto” non implica la “proprietà dell’altro” ma solo, per così dire, una “joint venture”, una “condivisione dei rispettivi destini” sulla base di una pari dignità reale. E che questa condivisione può avere senso finche l’equilibrio fra “gioia e dolore” permette un grado di felicità sufficiente per entrambi. Ma per raggiungere questo equilibrio e per mantenerlo nel tempo è necessaria una costante “manutenzione del rapporto”, un occuparsi e preoccuparsi di continuo delle emozioni, del vissuto e della parte razionale dell’altra/o. In definitiva, è necessario costruire un attaccamento a lungo termine, un “companionate love” o “amore amicale”, come dice Lehrer (2), che affiancandosi progressivamente alla più effimera “passione”, rappresenti quel diamante vero, che possiamo definire “amore”. Si tratta in questo caso di una condivisione dei propri destini, consapevole e attenta, che supera l’arcaico concetto di “legame”, che a volte richiama un vissuto come di prigione.

Si dirà, nessuno è perfetto e neppure le coppie lo sono, però io credo che non di perfezione si tratti, ma di raggiungere una sufficiente compatibilità fra le persone, anche attraverso un’attiva e costante “cura” reciproca della relazione. E questa è ciò che Lehrer chiama “La fatica dell’amore” (3)

Note bibliografiche

1) Jonah Lehrer – SULL’AMORE – Codice ed. Torino 2016 (Le scienze), pag. 95. Versione online consultabile all’indirizzo: https://www.lescienze.it/edicola/2016/11/02/news/sull_amore-3284500/

2) Ibidem pag. 173

3) Ibidem pag. 12