Qualche volta succede. Succede che un artista e un poeta si incontrino, e che, anche se se sembrano abitare pianeti diversi, si inneschi tra loro un fitto intreccio di rimandi e risonanze.
È successo un venerdì di fine ottobre, complice uno spazio accogliente, aperto alla sperimentazione, com’è l’Arca delle Arti, gestito da Elena Gaglioti che – incredibile in questi tempi di contrazione culturale, oltre che demografica – ha il coraggio di esserci, di portare avanti una proposta che alterna il fare e il conoscere, i laboratori e le mostre.
Per il finissage della personale di Giammarco Roccagli, dal titolo Omnia ad unum , si è tenuto un reading di poesie di Mara Donat, ricercatrice ed esperta di letteratura latinoamericana, ma anche traduttrice (sua la versione in spagnolo di una selezione di poesie di Zanzotto) e poetessa.
Molto lontane, queste due personalità, almeno in apparenza: tanto il linguaggio di Roccagli è pervicacemente astratto, aniconico, radicato in quella “linea analitica ” che permea molta arte del Novecento e che arriva, in una delle sue ultime incarnazioni, al movimento della Nuova Pittura entro cui il linguaggio di Roccagli ha preso forma, tanto l’immaginario di Donat è decisamente fisico, concreto, corporeo, intimo. E spesso, in questa concretezza, straziato e scisso.
Ma andiamo per ordine: Roccagli matura una sua propria poetica a partire dagli anni ‘80, quando mette a punto uno specifico linguaggio, segnico e astratto, basato sulla forma geometrica del cerchio.
Da che i cerchietti compaiono, e cioè almeno nell’‘85, con la serie Ad libitum – anche se ve ne sono tracce già prima, per esempio nella sequenza di punti di un’opera come Pentagramma, del 1976 – non smetteranno più di “circolare”, prima più fitti, minuti e stratificati, poi, dalla fine degli anni ‘90, più grandi, spaziati, definiti da rapporti cromatici accesi, stridenti, basati sul contrasto di tinte pure, spesso complementari.
Gran parte dei lavori esposti all’Arca delle Arti appartengono a questa fase, rubricata sotto i titoli collettivi di “Circoli” e “Circumcircoli”, in cui emergono alcune costanti che potremmo sintetizzare in: ritmo, in-finito, anti-spazio.
I circoli di Roccagli, pur disposti in bell’ordine sulla tela, tendono – birichini! – a divergere, ad “andarsene per la tangente”. La ricorrenza dei colori e l’allineamento delle forme creano andamenti dinamici, un ritmo visivo che ha il passo sincopato e in levare del jazz (il riferimento non è del tutto peregrino, dato l’interesse, anzi la passione di Roccagli per la musica).
Dal centro della tela, questi cerchiolini tendono a spostarsi ai margini ed esplorano anche il bordo del telaio, indicando così di voler proseguire nello spazio oltre il quadro. In altri termini potremmo dire che i segni si organizzano in pattern potenzialmente riproducibili all’infinito, estensibili oltre la tela, sulle pareti, nello spazio della galleria e idealmente ben oltre, fino ai quattro canti del mondo.
Per questo le tele non risultano più uno spazio finito e illusorio, come nella tradizione rinascimentale, ma appaiono, nonostante la loro forma ben delimitata, come frammento di uno spazio altro, di un anti-spazio. Anche perché, soprattutto negli ultimi lavori, la concezione tradizionale del quadro è alterata dalla forma irregolare del supporto, da tele che hanno angoli insoliti, che sono sghembe e come deformate.
Mara Donat invece non indaga la forma, o meglio sì ma, attraverso una forma poetica dissimulata con pudore, parla soprattutto di sé. La sua è una poesia densamente umana, intima, fatta di gioie e dolori, di radici e di scissioni. Nella plaquette Terraferma. 2012-2015 , la sua seconda ad essere pubblicata, uno dei temi ricorrenti è quello dell’acqua e delle risorgive, tipiche della campagna sanvitese in cui Mara è cresciuta. È un’acqua “piccola”, familiare, che sgorga dal nulla, che scorre tra i sassi delle “grave” e che in qualche modo alla fine confluirà in quell’oceano che Mara ha attraversato, per studiare, per alcuni anni, in Messico.
Le poesie che parlano di questa esperienza sono raccolte nella prima plaquette pubblicata, Schianti a sconfine . La frattura con la terra delle origini è avvenuta, ma non è senza dolore: è come se Mara stesse a scavalco tra due mondi, in una scomoda posizione che non è né del tutto di qua né di là; quasi, si potrebbe dire, con l’acqua, con un intero oceano tra le gambe. Emergono quindi i temi dello sconfinamento, dello straniamento, del movimento senza requie, che è psicologico e reale insieme, alla ricerca di un posto dove stare. E del corpo, che è ciò attraverso cui e su cui ognuna di queste esperienze avviene, il viaggio e l’abbandono, l’amore e la solitudine, la pioggia battente dell’autunno e il tepore del sole a primavera…
Questa oltranza del corpo, questa fisicità pulsante, vitale e dolente, è quanto di più lontano dal gioco ritmico dei cerchietti di Roccagli, dal ludus astratto e mentale dei percorsi segnici e dei contrasti di colori. Eppure…
Eppure quel venerdì sera, all’Arca delle Arti, è come se parole e forme si fossero accordate, credo per la loro complementarietà ma soprattutto per quel non so che di sfuggente, di divergente, di imprevisto e imponderabile che è intrinseco ad ogni espressione creativa, anche la più rigorosa e analitica, e che a volte crea imprevedibili risonanze. Si guardavano di lontano, l’arte e la poesia, ma si capivano.