Conosco Sandra da circa vent’anni e, per un certo periodo, abbiamo lavorato nella stessa organizzazione in ruoli diversi. Conosco la sua passione per il lavoro di infermiera e per i pazienti, per lo studio e il terzo settore ed è con lei che ho deciso di confrontarmi sul tema dei Confini in Sanità. Penso infatti che la posizione dell’infermiere, a metà fra il medico e il paziente, sia quella che maggiormente permette di cogliere i diversi punti di vista sul tema.
Ci incontriamo di persona il primo giorno di primavera.
Da quanto tempo lavori in sanità?
“Dal 1987, a pochi mesi dal diploma, sempre nel servizio pubblico. Ho cominciato in chirurgia all’ospedale di Pordenone, ero la più giovane, la ‘mascotte’ e ho avuto la ‘fortuna’ di avere avuto una coordinatrice – allora si chiamava caposala – che alcune volte prendeva decisioni che non comprendevo.
Ho sempre cercato di imparare da lei le cose positive, come la capacità di creare un gruppo infermieristico, di organizzare e gestire, ma ho cercato di imparare anche dalle cose che mi piacevano meno facendole diventare positive. Ricordo l’episodio di una signora anziana ricoverata, veniva dalla montagna pordenonese, il figlio riusciva a venirla a trovare una volta la settimana e in una delle sue visite le aveva portato delle banane. Essendo estate, si erano un po’ deperite e la caposala gliele aveva gettate. La signora si era messa a piangere in modo inconsolabile: quelle banane erano il suo simbolo di casa, rappresentava-no il legame con il figlio. Era importante l’igiene ma mi sono chiesta cosa avrei fatto io per non far stare male la signora. Porto sempre nel cuore la mia vecchia caposala, nel suo essere ‘tremenda’ mi ha insegnato tanto!
I pazienti mi hanno sempre dato tanto. Se rimanevano in ospedale più di uno-due giorni, sapevo tutto di loro, cioè le cose importanti, se avevano o no famiglia, chi erano i loro cari, quali erano i loro desideri, le loro paure…Soprattutto nei miei anni di lavoro al CRO di Aviano, dove c’era più modo di parlare con i pazienti, a volte son diventata amica dei pazienti. Comunque, ora come allora, il paziente per me è sempre stato al centro. Anche ora che non mi occupo più direttamente di pazienti ma sono il coordinatore dei Rapporti con l’Università di Udine e Pordenone, cerco sempre di trasmettere il principio che il focus sono e devono essere le persone”.
“Riapporto medico-paziente”. Foto di Attilio Rossetti, pubblicata nel testo “Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori”. Mondadori 2008, pag.35
Ma a te cosa suscita la parola “confini” in sanità?
“Se dovessi esprimerlo con un’immagine, ci metterei la nebbia, perché in sanità non esistono confini. O meglio, esistono, come la diversità di competenze fra professioni o i limiti e le regole, ma quando serve sconfinare bisogna valutare ed essere disponibili a farlo.
Alcune volte mi è capitato il paziente che, dopo un colloquio con il medico, veniva a chiedermi ‘cosa voleva dire il dottore con…’ e lì mi sono sempre chiesta dove era il confine. Era giusto dire – lo deve richiedere al medico – o spiegare con parole semplici e con un po’ di tempo il significato di quel colloquio?”
Ma cosa vuol dire ‘sconfinare’?
“Per esempio. L’orario di visita: è una regola, un confine. Ma come fai a farlo rispettare rigidamente se il parente in visita è una persona che viene da lontano o lavora o ha altri impedimenti? Diventa una nebbia, se lo rispetti a oltranza il focus è l’ordine del reparto non è più il rispetto del paziente. A parte il periodo del COVID, io credo ci debba essere una buona dose di flessibilità.
E fra professioni?
“Quando sono arrivata al CRO i confini fra medici e infermieri erano davvero netti. Poi, grazie all’aiuto di alcuni chirurghi, di alcuni infermieri, della mia caparbietà siamo riusciti ad appianare il solco. Il confine c’è sempre, ci deve essere, se no c’è confusione. Il confine era diventato un confine aperto, di collaborazione. Per esempio, fare il giro visita insieme medici e infermieri è molto importante, fa sì che l’infermiere sia partecipe della cura, non solo somministratore della terapia a partire dalla grafica. Così avere una cartella del paziente unica, inclusiva della cartella infermieristica: può servire al medico per informarsi di aspetti importanti della vita dei pazienti che gli infermieri rilevano perché passano più tempo con i pazienti rispetto ai medici.
E com’è il confine con gli altri operatori?
La sanità è un puzzle: al centro ci sono medici e infermieri e OSS – Operatori Socio Sanitari – ma ci sono anche tecnici, amministrativi, altri professionisti…
Solitamente questi operatori sono anche fisicamente ubicati in luoghi separati. Sia a Pordenone, dove lavoro ora, che ad Aviano, per restare in questa provincia, gli amministrativi lavorano in edifici più o meno distanti dai reparti di degenza o dai servizi clinici.
Eppure, un coordinatore infermieri-stico ha molto bisogno di dialogare con loro: rispetto ai pazienti, per la parte amministrativa di esami e ricoveri, la fornitura di presidi sanitari, la pulizia, il cibo etc..; relativamente al personale, per la gestione degli orari, la formazione, il materiale informativo da dare ai pazienti. In pratica per un sacco di cose necessarie alla cura e al comfort del paziente e alla vita degli operatori. Spesso invece c’è un muro fra sanitari e non, il dialogo è lasciato all’iniziativa dei singoli, non esiste un pensiero circa la necessità di costruire una collaborazione fra operatori appartenenti a diverse aree, di abbattere i muri basati spesso su pregiudizi e ignoranza.
Conoscere il punto di vista di una e dell’altra categoria non è sentito come una priorità. Anche la formazione continua degli operatori, che è uno strumento molto importante, non è mirata. Specialmente ora, dopo il COVID, che si fa quasi completamente a distanza, è lasciata molto all’interesse dei singoli operatori. I temi obbligatori sono relativi alla sicurezza, all’anticorruzione, ma il sistema nel suo insieme non si pone il problema di formare al dialogo tra professioni. Come infermieri spesso ci aggiorniamo solo tenendo conto degli aspetti sanitari, ma anche gli aspetti psicologici, sociali, culturali delle persone sono importanti. Formarsi all’ascolto è fondamentale, aiuta a lavorare meglio e in modo più efficace.
Per me, questo mestiere non avrebbe avuto senso se non avessi ascoltato, non fossi entrata in relazione con i pazienti. Le loro storie fan parte di me. Ci possono essere barriere di vario tipo fra pazienti e operatori, ma se non si lavora per superarle è un impoverimento per tutti.
Ciò che fa la differenza in termini di far stare bene le persone in un luogo di cura rispetto a un altro è soprattutto questo. Ho in mente storie di genitori il cui figlio alla fine è morto al CRO di Aviano, per esempio, ma che ci sono tornati quando la malattia è capitata a loro. Il loro figlio ci era stato bene, nonostante l’esito. Anche a Pordenone c’è stato un grande miglioramento nell’accoglienza. Ciò che conta è riuscire a vedere le persone oltre i confini di ruoli, professioni, posizioni, distanze geografiche e culturali.
Cosa pensi della parola “interdisciplinarietà”?
L’ interdisciplinarità è l’arte di lavorare insieme fra individui o gruppi di diverse discipline. Alcune volte è una parola che viene utilizzata nel lessico e meno nella pratica, ma è una parola necessaria per costruire. Credo ci voglia conoscenza, rispetto, umiltà e anche un po’ di “pazzia”…Non è facile costruire in questo modo, ora poi mancano sia medici che infermieri e i concorsi vanno deserti. Ma proprio per questo è necessario lavorare insieme. Sono tanti i confini e ognuno dovrebbe essere inteso come un orizzonte: il bello è andare a scoprire la diversità e la contaminazione, scrive Gianni Tognoni nel numero di marzo 2023 della rivista Forward. Recenti progressi in medicina, che ha per tema Confini.