Essendo mio compito parlare di libri, inizierei con una poesia tratta dal volume di Maria Teresa Micheluz ”Carpe diem. Pensieri in un attimo” (edizioni Dantebus 2023):
Ci siamo creati confini,
misteriose linee che fermano
chiunque voglia entrare nel nostro spazio vitale.
Eppure l’amore riesce a passare,
senza spezzare nulla,
a piedi scalzi per non far rumore.
Qui si fa riferimento ai confini spirituali, ma ben altri spesso sono i confini dell’umano, materiali, fisici, territoriali, geopolitici, confini che comprendono uno spazio vitale per il quale si è pronti a scatenare i peggiori conflitti.
E non c’è amore che tenga…tutto si spezza con un gran rumore, folle e distruttivo.
Ne è esempio la guerra che in Ucraina si combatte da più di un anno, un conflitto che semina morte e distruzione in modo orribile, colpendo tante vittime innocenti (molti sono i libri sul tema usciti in questi mesi: tra i tanti consigliabili citerei in questo momento quello di Luca Crippa e Maurizio Onnis intitolato ”La bambina di Kiev”, edito da Libreria Pienogiorno).
Ma, come immediata conseguenza, possiamo e dobbiamo anche interrogarci a proposito di un altro possibile confine, quello tra un’attenzione sincera, umana e appassionata, e un’attenzione più fuggevole, momentanea e forse meno genuina. Sorge il dubbio che la preoccupazione per questa guerra vada lentamente attenuandosi, forse anche perché sembrano allontanarsi le conseguenze che essa può avere per noi (ad esempio costo della benzina e bollette dell’energia si stanno stabilizzando e pare che non si prospettino particolari problemi in futuro per le nostre riserve energetiche).
E d’altronde poco ci si preoccupa, ma forse non ce ne siamo preoccupati neppure in precedenza, della gente che in Africa sta morendo di fame a causa di questa guerra.
Dovremmo anche riflettere sul confine tra una volontà di guerra e una volontà di pace, tra la scelta di aumentare gli armamenti e il desiderio di disarmo. Naturalmente ci sono ragioni considerevoli sia da una parte che dall’altra, però dovrebbe risultare abbastanza evidente che continuare a costruire armi comporta inevitabili presupposti per futuri nuovi conflitti. Molti considerano banale questo ragionamento, tuttavia una seria riflessione su secoli di storia umana costellata da continue guerre dovrebbe pur porre degli interrogativi.
Forse vogliamo considerare ”stupido” chi pronuncia frasi di questo genere:
”il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro; come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare”;
”possiamo chiamarla utopia, tuttavia il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata”;
”molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava utopistica eppure oggi l’idea di esseri incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è diventata realtà”;
”dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile”…
Queste frasi sono di Gino Strada: vogliamo considerarlo uno stupido? Beh, io dico ”averne di stupidi di questo tipo”, magari ne fosse pieno il mondo!
Occorre definire adeguatamente l’idea di pacifismo, che non è quella di lottare contro la guerra bensì di operare per la pace, con tutti gli strumenti possibili. Occorre desiderare una pace vera, duratura, e non quel tipo di pace che in realtà diventa un armistizio, uno stato di cose più o meno labile e foriero di future riprese belliche. Dobbiamo progettare una pace basata sull’amicizia tra tutti, sulla pacifica convivenza, su un senso di umana appartenenza ad un mondo nel quali i confini non siano muri di discordia e di possibili follie.
Consideriamo la frase del filosofo Angelus Silesius (al secolo Johannes Scheffler) riguardante il concetto di luogo: ”non sei tu nel luogo, è il luogo ad essere in te. Se lo rispetti, ecco qui c’è già l’eternità”. Noi non possiamo sentirci definitivamente proprietari di alcun luogo, ma piuttosto dobbiamo preoccuparci di vivere in uno stato di continua concordia, avendo come prima norma la moderazione e come massima preoccupazione il rispetto dell’altro.
Un rispetto che, solo per fare un esempio, certamente gli occidentali arrivati in America non hanno riservato alle tribù indiane, da sempre padrone di quelle terre. Fortunatamente, anche se con con grave ritardo e mai in maniera definitiva, oggi non prevale più quel pensiero unico che considerava gli uni come selvaggi da addomesticare e gli altri come evoluti aventi il diritto di imporre le proprie leggi. Non mancano film e saggi che cercano di mettere chiarezza su questo genocidio (purtroppo di genocidi il passato è pieno e non ne è certo immune il presente). Desidero consigliare un volume uscito da poco: ”Il crinale” di Michael Punke (Einaudi), un romanzo che descrive la battaglia di Fetterman. Si tratta di una battaglia meno nota ma non meno rilevante rispetto a quella di Little Bighorn. In entrambi i casi le principali tribù indiane, solitamente più pronte a scontrarsi che non ad allearsi, sono riuscite a trovare un accordo e mettere insieme un esercito di circa duemila uomini per fronteggiare e sconfiggere, pur non possedendo lo stesso potenziale di armi, l’esercito americano.
Il lavoro di Punke si rende apprezzabile per l’ottimo livello di scrittura, ma più ancora risulta ragguardevole per lo sforzo di descrivere in modo obiettivo le parti in conflitto con le reciproche caratteristiche. Recandosi sui posti della battaglia e raccogliendo molta documentazione, l’autore arriva a fornire una ricostruzione verosimilmente fedele; trasmette il carattere degli indiani e dei militari, il loro modo di approcciarsi agli eventi, le loro strategie e i loro errori. Colpisce in modo particolare la descrizione dell’ultimo atto della battaglia: dell’esercito americano rimane in piedi solo il trombettiere che continua a combattere fino all’ultimo usando la sua tromba; il capo indiano, colpito da tanto coraggio, ferma un suo guerriero nell’atto di scalparlo e stende sul suo corpo una coperta facendo capire ai suoi che quell’uomo va rispettato. E questi erano i selvaggi!
Alla base di quella guerra e di quel genocidio c’era l’interesse economico. Quasi sempre è così.
La conquista di ricchezza e di potere, un binomio pervicacemente inscindibile, è il motore della maggior parte dei conflitti.
E allora parliamo di un altro confine, quello tra ricchi e poveri, che si pone alla base della vera, secondo alcune analisi, terza guerra mondiale. Una guerra che parrebbe già vinta dai primi senza che gli altri possano sperare in una qualche futura ripresa. In questo caso forse non esiste un possibile armistizio e men che meno una possibile vera pace. Pare esserci spazio solo per una sconfitta che assume l’abito di una schiavitù tanto più pericolosa quanto più subdola.
Ancora una volta può venirci in aiuto un libro: ”Se la classe inferiore sapesse. Ricchi e ricchezza in Italia” (scritto da Giulio Marcon e pubblicato dall’editore People a febbraio di quest’anno); la sua lettura ci permette di capire qual è la situazione proprio qui nel nostro paese. Un paese con cinque milioni di poveri e un livello di povertà che aumenta di anno in anno.
Ci sarebbero tanti altri libri da considerare, nel tentativo di affrontate e chiarite molte altre cose, ma a questo punto preferisco chiudere questo mio articoletto, anche perché quello dei ”confini” appare veramente come un tema che confini non ne ha.