Dentro e fuori, fuori e dentro i cancelli e le mura della Casa Circondariale di Pordenone. Si suona al cancello esterno, una piccola salitina e sei dentro. Non ancora del tutto. Lasci borsa, telefono, oggetti personali negli armadietti. Risuoni un nuovo campanello: questa volta per chiedere di aprire la porta di ferro. Si chiude dietro di te e solo dopo i necessari controlli di legge si aprirà quella che consente l’accesso al cortile interno.
Sei dentro, ma dentro veramente lo sei solo quando si apre il cancello del laboratorio di legatoria ed entrano con la guardia i tuoi 12 allievi. Si chiude il cancello. Ora il tempo dentro si dilata, le parole e le comunicazioni sono essenziali, legate all’essere lì ed allo svolgersi della lezione: come utilizzare al meglio materiali e strumenti per esprimere, disegnare, ritagliare, cucire, incollare il cuore di quelle lezioni di legatoria artistica: “il mio labirinto”, metafora della detenzione e del percorso di riscatto.
Una metafora per l’attività formativa di Legatoria, svolta presso il carcere di Pordenone dal 2915 al 2017, in collaborazione con il Comune di Pordenone e Servizio Sociale dei Comuni UTI del Noncello, con il supporto della Regione Friuli Venezia Giulia, del Fondo Sociale Europeo e dello IAL FVG. Che con il supporto della Direzione del carcere rappresentata dal dott. Quagliotto ha potuto esprimere anche una facies artistica.
Poi, quando arriva la guardia, si fa la conta delle forbici, dei taglierini e degli aghi e gli allievi tornano in cella. Fuori e dentro. Al termine delle lezioni i diversi insegnanti alternatisi, Virginia Di Lazzaro e Pasquale Luongo per i laboratori di legatoria e disegno e Fabizio Magentini, David D’Agostin per gli insegnamenti di orientamento al lavoro e sicurezza e la coordinatrice Marina Stroili, ripercorrendo le tappe già fatte a rovescio, escono fuori. Loro, i detenuti restano dentro. A pagare il debito con la giustizia e con sé stessi, ognuno con il proprio percorso il proprio labirinto, in un modo poco conosciuto dai più.
Anche se proprio attraverso i disegni prodotti durante i laboratori le mura del carcere si aprono all’esterno. Non solo per quell’unica eccezionale occasione nella quale i partecipanti alla mostra realizzata con i lavori dei detenuti, hanno potuto percorrere il labirinto disegnato nel campo di basket.
Ma anche tutte le volte in cui i disegni, oppure i manufatti di sartoria, o anche gli uccellini di legno, le farfalle possono comunicare fra fuori e dentro espressività e bellezza. Siano essi prodotto di attività laboratoriali realizzate nella Casa Circondariale di Pordenone, Udine, Gorizia, Tolmezzo. In ciascun carcere, con caratteristiche e modalità diverse.
Chi è dentro conosce il fuori? chi è fuori conosce il dentro?
Difficile immaginare cosa c’è oltre il cemento o le muraglie di vecchi castelli. Oltre a non conoscere visivamente cosa c’è, è difficile immaginare come funzionano le cose, quali sono le priorità e i piccoli sistemi per sopravvivere durante il tempo di reclusione e possibilmente dargli un senso.
I gruppi di persone spesso non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro e si creano strani agglomerati di storie. Il dentro è un sottoinsieme, una bolla metafisica, dove il tempo non è quello di fuori.
Sul tempo dentro:
Progettare a settembre di mangiare il panettone insieme prima di Natale.
All’inizio dei corsi in carcere, in partenza generalmente a settembre, quando mi risulta possibile, ho capito che una cosa importante per i miei corsisti è passare il tempo in attesa del Natale insieme.
Occupare il tempo progettandone sensibilmente la scansione; lavorare con l’obiettivo di chiudere, oltre che il corso, un ciclo temporale celebrando insieme le convenzioni del calendario Gregoriano che scandiscono le loro pene è importante! Ora, con l’esperienza, lo comprendo profondamente. Il Covid purtroppo, da alcuni anni, non ci permette di mangiare il panettone insieme, perché tutto ciò che è condivisione di cibo prevederebbe di togliersi la mascherina e non è consentito dall’ordinamento interno. Il panettone comunque continuiamo a sognarcelo, ricordando quello di tre anni fa: bellissimo, farcito alla crema di pistacchi che mi feci dare da mio cugino chef, inviato dalla Sicilia da un panificio-pasticceria di fiducia .
Ricordo e ricordano tutti i partecipanti, ancora, la festa di quel giorno. All’inizio della lezione, alle 8.30, salendo in equilibrio precario su di un tavolo, lo mettemmo a scaldare sopra i termosifoni a soffitto per fare in modo che all’ affettarlo e gustarlo, alle 11.00, fosse perfetto.
Sul tempo uscendo:
Dire buonasera alle 14.30, alle guardie all’uscita del carcere quando finisci il corso, perché la giornata dentro è finita.
Ci ho pensato parecchie volte, chiedendomi se fosse giusto salutare con un “buonasera” alle 14.30: ma mi è sempre venuto naturale.
Seppur dopo avessi dovuto continuare a lavorare e per me la giornata non era finita, anzi era appena iniziata, il buonasera continuava ad uscirmi di bocca con grande naturalezza. Poi, stranamente, al passare l’ultimo portone riaccelleravo e il ritmo del tempo cambiava perché dovevo correre per fare lezione alle 16.00 a un gruppetto di adolescenti per cui il tempo aveva tutto un altro significato e ritmo.
Alcuni siti internet che si occupano di spiegare il “Galateo” sostengono che ci sia una differenza nell’uso del “buongiorno e buonasera” tra sud e Nord.
Dicono che al Nord Italia si dice sempre buongiorno e il «buonasera» si usa quando comincia a fare buio, mentre al Sud, già passate le 12:00 o nel primo pomeriggio, si può iniziare già a dire Buonasera.
Si, è vero, qui siamo in un estremo nord anomalo abitato da napoletani , pugliesi, siciliani e carnici che come è risaputo sono orgogliosamente incatalogabili e forse questo insieme di specificità permette di dire “buonasera” in anticipo rispetto al fuso orario circostante, ma non credo sia questa la ragione principale.
Alle 14.00 la sensazione che pervade sempre la classe è quella di aver passato una giornata piena di lavoro, al massimo delle possibilità concepite lì dentro, e quindi per noi la giornata è finita .
Pochi minuti prima della conta da parte delle guardie del materiale nella cassetta degli attrezzi, nella sezione didattica si percepisce un fermento che, senza guardare l’orologio, ti fa capire che la giornata di lavoro è terminata ed è ora di pensare alla serata. Ordinando le cose del laboratorio e iniziando a mettersi in fila per i controlli P. mi chiede: “Virginia che fai per cena stasera?” Io gli rispondo con una domanda: “ P. e tu che fai?” e ci troviamo alle 14.00 a parlare della cena come a settembre ci si trova a parlare di panettone e a 3 anni dal fine pena ad immaginarsi come sarà uscire.
Sul passato, sul presente e sul futuro:
GIi orologi fermi di Tolmezzo
A Tolmezzo, tutti, dico tutti, i bellissimi orologi Solari (credo siamo Timac 50 Bifacciali) sono fermi ognuno ad un ora diversa . Fermi ormai da anni ognuno alla sua ora.
Quando alle 8:25 del mattino, scorrendo velocemente i lunghi corridoi dove il suono anche dei tuoi passi diventa involontariamente un po’ marziale, vedo il primo orologio puntato alla mezzanotte, il secondo alle 8.30 (quasi giusto) e il terzo alle 17.00, aspetto solo di veder apparire gli spiriti che tanto hanno tormentato Ebenezer Scrooge nella notte di Natale.
La “grande frenata” che è la detenzione, credo che spesso , dai suoi fumi , faccia apparire fantasmi: passati, presenti e futuri.
Ho sempre pensato che l’unico modo per poter lavorare e fare qualcosa “dentro” sia sospendere il giudizio. Una tecnica per sospenderlo è allenarsi al separare le cose per poi rimetterle insieme solo quando affiora, nell’incontro e nel tempo, la complessità.
Ho capito che stare nel presente è già un primo ottimo risultato.
Il lavoro che tento di fare è rendere il presente qualcosa di gradevole e che permetta di ampliare la percezione delle cose che ci circondano seppur in un ambiente ristretto.
Quando si riesce a parlare di futuro è un regalo fragile come un fiore che va trattato con cura e coltivato con delicatezza.