Blognotes 08
Blognotes 16

RISCHIO è il tema del numero più recente di Blognotes 16

Articolo presente in

Elogio dei trovarobe

di Vittorio Giustina, testo e foto

Sandro Pittini nel suo interessante saggio che ha intitolato, “Il naufragio del tempo”  (Blognotes, Approfondimenti 2023) dice del bisogno urgente per l’uomo d’oggi di recuperare il fattore temporale “per imprimere una dimensione qualitativa allo spazio e riconoscere nel passato le radici della propria identità”. L’autore vede un tempo dove c’è il rischio di “una generazione senza memoria di sé, incapace di comunicare e di lasciare una testimonianza concreta al futuro”. L’argomentazione muove attorno ai saperi dell’archeologia, l’architettura e le grandi istituzioni museali. Alla preoccupazione di Pittini sottolineo, da parte mia, quella di una generazione sterile, disorientata verso il suo futuro ma, insieme, orfana del suo passato. Questione di rilevantissima importanza essendo il tempo, con lo spazio, coordinata costitutiva di quello straordinario vivente umano che noi siamo.

Dai discorso di Pittini sui grandi saperi e le grandi istituzioni, con particolare riferimento all’archeologia,  mi sono chiesto, forse con irrispettosa divagazione, se molte delle riflessioni che lui propone, non abbiano significato anche nella più piccola, erratica dimensione del nostro vivere quotidiano. Il saggio mi ha richiamato infatti tanti, appassionati frequentatori di “mercatini dell’usato”, cacciatori di oggetti d’ogni genere, che mi capita di incontrare e che da sempre mi incuriosiscono.
Anche loro, potremmo dire, esploratori “archeologici” sia pure in uno spazio temporale irrisorio, marginale, senza rilievi topografici, pale o altre attrezzature di scavo.
Trovarobe che girano tra gli esigui spazi espositivi dei banchi senza uno scopo utilitaristico o commerciale. Né puramente estetico o per una qualche mania collezionistica.
Alle spalle, i “curatori” di quei precari musei itineranti  del modernariato, conoscitori impagabili degli oggetti d’arredo o di lavoro delle case essendo nello sgombero di stanze  e solai di abitazioni vendute o abbandonate i giacimenti “archeologici” della loro attività. Venditori e occasionali acquirenti che frugano nella minima profondità di un tempo prossimo seguendo gli umilissimi fili di una passata quotidianeità rievocata nel presente: come una brocca d’osteria per il vino o una lampada con lo stelo d’ottone anni ‘50 e, persino, cartoline slavate di chiese o piazze di paese o dipinti ad olio su minuscole tavole di paesaggi o di fiori, quelle che gli intenditori chiamano “croste”….

E non importa quanto quella ricerca sia consapevolmente meditata. Mi chiedo insomma se anche tra minime “cose” fatte di vetri, legni, metalli, terrecotte e ceramiche volgari, privi della venerabile dignità dei tempi antichi, non si esprima il “il bisogno dello spessore temporale per riconoscere nel passato le radici della propria identità”. Non è forse anche questo il modo di  “abitare il tempo”  (Galimberti)  che intimamente ci appartiene? Insomma, il mercatino dell’usato con i suoi visitatori e clienti “trovarobe” come inconsapevoli fratelli minori dell’archeologo titolato, uniti nel comune atteggiamento, propriamente umano, di fare i conti con  il tempo, trattenerne la storia, riconoscerla riconoscendosi in essa. In tal senso penso che il fatidico “fattore T”  si oggettivi non solo nelle memorabili “rovine che la terra racchiude”. Tesori d’epoche passate che si svelanoi talvolta, come nel mio ricordo, nel maestoso nuraghe sardo prima sepolto nella dimenticanza e il buio silenzio della terra, poi riemerso dalla grande collina erbosa che lo seppelliva dove da secoli i pastori pascolavano le loro pecore, “testimonianza tangibile non solo di un defunto mondo antico ma anche di un suo intermittente e ritmico ridestarsi a nuova vita”.

Dunque, esemplarmente il nuraghe o  i recenti ritrovamenti nel sito archeologico di Aquileia,  ma anche ogni minimo  frammento “di storie parzialmente cancellate,  casualmente sfuggiti al naufragio del tempo” in quell’intersecarsi dell’orizzontale della storia presente con il verticale della storia passata essendo le nostre singole vite momenti che risalgono la traccia di generazioni  che le hanno precedute in “una specie di formazione geologica”.(cit. Victor Hugo)

Se così è, dalle testimonianze  gloriose, patrimonio dell’umanità, fino ai più insignificanti e umili oggetti scovati alle fiere dell’usato agisce “una forte esigenza del mondo contemporaneo di recuperare il fattore temporale come elemento che può imprimere una dimensione qualitativa allo spazio per l’uomo”. Certo, anche questo. 

Ma, io penso che sotteso all’esigenza del lavoro dell’archeologo e delle ricerche domenicali del trovarobe ci sia, più in profondità, lo “scavo” appassionato e infaticabile attorno alla nostra enigmatica identità di viventi. Esplorazioni, sonde gettate, ricerche d’approdi in direzione di quella “totalità materna” ( la Grande Madre terra?) di cui dice Pittini. Un pensiero il suo, forse fraintendendolo, che, mi pare adombri, poeticamente, l’immagine di un tempo ciclico eterno come destino a cui fatalmente apparteniamo. L’idea, in altre parole, della Grande Ruota cosmica che nel suo seno comprende l’irrisorietà delle nostre vite singole, provvisorie e caduche per ricomprenderle tutte nella figura compiuta di senso di una  “sinusoide proiettata all’infinito”…
Ma noi, figli dell’Occidente, dai filosofi greci ad oggi, sentiamo che la risposta è inadeguata e l’interrogativo che riguarda noi stessi, la nostra ricerca e le nostre origini rimane inesorabilmente ancora aperto. Lo dice forse anche il lavoro degli archeologi e i vagabondaggi di compratori curiosi nei mercatini dell’usato.