Un collegio per ricominciare dopo l’esodo e la guerra
Nove bambini, oggi uomini maturi.
Sette “figli dell’esodo”, due orfani per cause di guerra, la seconda guerra mondiale che, nel confine orientale, finisce più tardi che nel resto d’Italia. Un passato da collegiali, nove storie a loro modo di riscatto in rappresentanza di tante altre che non ho conosciuto
Alle spalle di questi bambini Zara, Albona, Pola, Brioni, Abbazia, Parenzo… e addirittura la lontana Libia! Gli echi di quell’esodo dei 250-300.000 che decidono di partire portandosi dietro tutto. Anche le ossa dei propri morti. In pochi decenni l’Istria, Fiume e la Dalmazia perdono la quasi totalità delle genti di lingua e cultura italiana, o meglio venetofona.
Italiani dimenticati / In qualche angolo della memoria / Come una pagina strappata / Dal grande libro della storia li definisce Simone Cristicchi in quella “Magazzino 18” che dà il nome allo spettacolo.
L’Italia perde la guerra, Trieste il suo retroterra e Gorizia viene letteralmente tagliata in due da un confine impietoso, col filo spinato che non ha pietà nemmeno dei morti.
Altri due invece esuli non sono, ma non c’è poi tutta questa gran differenza. Orfani per cause di guerra, come orfani sono anche molti profughi.
A Gorizia dal 1951 un collegio dell’Opera Profughi ha finalmente trovato la sua sede definitiva, dopo alcuni anni di permanenza in una sede di fortuna a Grado. È quel “Fabio Filzi” che per anni è stato nuova casa per tanti ragazzi e di cui la Gorizia di oggi ricorda poco. Un passato difficile, un futuro da costruire.
Sono anni duri di giornate monotone e ripetitive scandite da un’educazione di stampo militaresco e da una rigida disciplina: studio, sport, infinite passeggiate, coro, teatro. E poi le commemorazioni. Ore e ore in riga in divisa, a presenziare a interminabili celebrazioni.
Per tutti si è “quelli del Filzi”. Con l’esterno, però, in quegli anni si hanno ben pochi contatti. Giusto a scuola si condividono i banchi con compagni goriziani, non collegiali. Ragazze non ne parliamo…
Intorno al collegio si sviluppa quel Villaggio Giuliano costruito per ospitare i profughi dalle terre dell’esodo. La domenica gli abitanti del quartiere si radunano nel capannone, adiacente al collegio, che funge per anni da chiesa. A spezzare la routine qualche sporadica visita dei parenti, per i fortunati, bonariamente invidiati, che li hanno vicini.
La maggior parte del tempo la si trascorre con gli altri collegiali, soprattutto con la propria squadra, il piccolo gruppo di compagni affidati alle cure degli stessi istitutori.
Questi compagni di “sventura”, così simili nelle loro differenze, diventano a poco a poco una seconda famiglia. E famiglia restano, anche dopo molti decenni di silenzio.
Del passato in collegio non si parla, le proprie vite ce le si racconterà poi, a decenni di distanza.
Anche con quegli istitutori, con i quali i rapporti non sono sempre rosei, si stringono nel tempo dei rapporti quasi amicali. Cinque, dieci anni più dei ragazzini di cui si occupano. Spesso universitari al primo impiego, senza vera preparazione pedagogica.
Il legame con le origini è una presenza costante nella vita dei collegiali perché esuli sono anche la gran parte degli adulti: dal direttore agli istitutori, dal maestro di musica, al prete, alla cuoca…
Qualche ragazzo trascorre a Gorizia solo gli anni delle scuole medie inferiori, molti altri frequentano da collegiali tutte le superiori. Per molti essere collegiale è già un’abitudine.
Poi la vita va avanti. Finalmente liberi cittadini qualcuno cerca di dimenticare questa esperienza, che ha permesso di studiare e da cui si è usciti indubbiamente più grandi, ma talvolta repressi. Ognuno dei ragazzini di un tempo intraprende la sua strada nei campi più disparati: architetti, ingegneri, geometri, pubblicitari, editori, sindacalisti, militari, capitani di vascello, registi, attori… Molti si reinventano tante volte, cambiando città o addirittura paese.
Qualche contatto viene mantenuto, ma presi dal lavoro, da mogli, figli e poi nipoti non c’è tempo per il passato. Altri vogliono seppellire completamente quel pezzo di vita.
Ritrovarsi ancora collegiali a cinquant’anni di distanza
Con la pensione e l’avanzare dell’età nasce in più d’uno il desiderio di riallacciare quei legami un tempo così importanti. Si comincia a cercarsi, contarsi, stilare liste di nomi, numeri e indirizzi. Si fanno le prime cene, si mettono in piedi grandi raduni, anche con le mogli, qualche figlio e nipote.
Qualche istitutore ancora vivo accetta ben volentieri di partecipare.
Si decide di dare vita all’associazione, “Ierimo del Filzi”, e a un giornalino, “La Caravella”.
“Serviva un nome, un simbolo, un marchio che ci identificasse, fra di noi e al di fuori: fu creato il logo “Ierimo del Filzi” sovrastante un’immagine grafica della Rosa dei Venti, a simboleggiare la nostra diaspora, prima di esuli e di convittori poi” recita un articolo dell’anno scorso.
Qualche anno dopo viene pubblicato anche un libro, omonimo dell’associazione, a cui segue una mostra. In questa occasione due collegiali, un geometra e un architetto, si mettono a ricostruire a memoria un plastico di quel collegio.
Quell’edificio, che prima dell’arrivo del collegio ospitava la sede della caserma degli Alpini, oggi non c’è più. Abbattuto e ricostruito negli anni ’60 e ’70, dalla chiusura del “Filzi” nel 1980 tutta l’area versa in un triste stato di abbandono. Da decenni ci sono progetti in piedi per un suo possibile recupero…
Una tesi sulle orme della storia di famiglia
A maggio di quest’anno ho conseguito finalmente la laurea magistrale in Antropologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Questa ricerca non è nata per caso, perché tra quelle genti che negli ’40 e ’50 lasciarono in fretta e furia le loro case in Istria, stipando in borse de rede i pochi effetti personali che riuscivano a portarsi appresso, c’era anche la famiglia di mio padre.
Il suggerimento del mio relatore, professor Alessandro Casellato, è stato però quello di trattare il tema dell’esodo da una prospettiva non indagata. Ed ecco l’incontro col gruppo dei collegiali.
È attraverso i loro preziosissimi racconti e ricordi di ex collegiali che ho ricostruito la vita quotidiana nel primo decennio del “Filzi” e tangenzialmente di alcuni altri collegi simili a questo.
Ma al centro del mio lavoro ci sono soprattutto le loro storie e la traccia che l’esperienza collegiale ha lasciato nei loro percorsi di vita.
Mario Vigiak era nato a Zara. Rimasto orfano di madre prestissimo, perde anche il padre soldato solo qualche anno dopo. Lo crescono la nonna e bisnonna. È stato editore, pubblicitario e fine intellettuale… ma era soprattutto animatore e collante del gruppo ricostituito dei collegiali, in cui la sua scomparsa ha lasciato un grosso vuoto.
Giovanni F. (ometto il cognome come mi aveva chiesto) era nato vicino Albona. Uscito dal collegio studia geologia. Dopo alcuni anni di cantieri in giro per l’Italia, si stabilisce a Maniago e comincia ad insegnare. Si ritrova vedovo molto presto e deve rispolverare le tante abilità apprese negli anni collegiali per crescere i suoi due ragazzi. Nella vecchiaia mette in piedi la biblioteca di Maniago e gestisce una libreria.
Tullio Canevari pratica l’atletica ad alti livelli durante gli anni goriziani. Uscito di collegio studia architettura, mentre lavora come assicuratore. Nato sull’arcipelago di Brioni è costretto fino al 1983 a vedere casa sua da lontano col binocolo. Negli ultimi anni di vita ricopre con molto impegno la carica di Sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio. Suppongo che abbia dedicato i suoi ultimi mesi anche a ricopiare a mano l’intervista che avevamo fatto per la tesi.
Claudio Schira, in gioventù promessa dell’atletica, dopo un infortunio mette da parte la carriera sportiva e diventa ingegnere elettronico. È la voce più critica, ancora molto segnato dalla perdita dei possedimenti che la sua famiglia aveva ad Albona.
Luciano Fornasar nasce a Bengasi in Libia, da genitori istriani. Lasciata Parenzo, città dei nonni, approda al “Filzi”, di cui è uno degli ultimi collegiali di lungo corso. Dopo gli studi da geometra lavora in Messico e sul cantiere della diga del Vajont. Siamo tuttora in frequente contatto.
Giuseppe Brodnik è il più anziano dei collegiali che ho intervistato. Arriva in collegio dopo una rocambolesca fuga in solitaria da Abbazia. Veterano del “Tommaseo” di Brindisi, al “Filzi” resta giusto il tempo di finire il liceo. Passa poi dall’altra parte della barricata e per oltre un decennio diventa istitutore di ragazzi com’era lui solo qualche anno prima.
Furio Dorini arriva al “Filzi” da Pola, lasciando la famiglia in campo profughi di Torino, ci rimarranno per anni. Studia da ragioniere e dopo alcuni anni trascorsi a stampare elenchi telefonici, gestisce l’import-export dall’Estremo Oriente per un’azienda di grande distribuzione fino alla pensione. Quando si costituisce l’associazione ne viene eletto presidente e recupera le abilità di tipografo per stampare il giornalino.
Gli ultimi due non sono profughi, ma per certi versi ormai è come se lo fossero.
Entrano in collegio, in anni diversi, perché orfani per cause di guerra.
Franco Bertoli perde il padre a Montecassino, probabilmente ucciso da fuoco amico. La mamma lavora a servizio da una famiglia e di lui non potrebbe occuparsi. A Gorizia passa solamente pochi anni, per poi completare gli studi nei collegi dell’Opera Orfani e dell’Opera di Don Marzari.
Con i filzini esuli della città dove vive ha intrecciato rapporti molto stretti.
Giovanni Trinca è più giovane degli altri testimoni. È stato il mio primo contatto con il “Filzi” e il gruppo dei collegiali, un occhio esterno non sempre tenero con le rigide regole dell’istituzione.
Ottavo di nove fratelli, famiglia poverissima di un piccolo paesino del trevigiano, un padre morto a 45 anni per la tbc contratta in guerra. Per lui, che ha tutt’altro background, gli anni di collegio sono una lotta, una sofferenza. Solo ripercorrendo con me questa esperienza si accorge che in fondo in qualche modo gli era stata utile. Uscito dal collegio, con la promessa al direttore di non tornarci più, si impegna con passione nel sindacato e, dopo la pensione, in attività di volontariato in giro per il mondo. L’amicizia con Mario Vigiak lo fa avvicinare al gruppo dei collegiali.
Spero che questa tesi sia servita a tramandare la memoria di queste persone e dell’esperienze di cui sono stati protagonisti e magari a costruire ponti invece di confini.
I fatti recenti purtroppo non sembrano andare in questa direzione, ma proprio per questo non bisogna dimenticare.