Ciò che incontrai nella mia strada,
ora ne sono una parte.
Pur, ciò ch’io vidi è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini
via, man mano che inoltro.
Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine,
il restare sotto la ruggine opachi
né splendere più nell’attrito.
da Ulisse, Alfred Tennyson
Che cosa induce una persona a mollare tutto, le proprie abitudini, i luoghi e le persone che frequenta e conosce da sempre, la sicurezza della propria comfort zone, per lanciarsi alla scoperta di un paese sconosciuto di cui ha udito narrazioni fantastiche; ad attraversare il deserto su uno scomodo e puzzolente cammello, gli occhi sferzati dalla sabbia e uno sporco fazzoletto a riparare la bocca; a riempirsi le unghie di terra scavando nelle tombe; a gridare ordini a indigeni che non lo capiscono: non capiscono la sua lingua, i suoi modi, le sue intenzioni, e allora deve gesticolare, ripetersi, alzare la voce e le mani, farsi il sangue amaro; a mangiare cibi indigesti, per essere a sua volta mangiato dalle zanzare al tramonto? Persino rischiare di essere ucciso quando gli interessi si fanno troppo alti?
Me lo sono chiesto leggendo la biografia di Giovanni Battista Belzoni, Il gigante del Nilo, di Marco Zatterin. Nato a Padova, fu seminarista a Roma, giullare a Londra, ingegnere idraulico al Cairo, archeologo a Luxor. Belzoni è stato tutto ciò e molto altro.
Considerato il padre dell’egittologia moderna, lui che non era nemmeno archeologo, si è portato sulle spalle lo scherno degli archeologi studiati. Ma le sue erano spalle larghe e poderose, da gigante buono ma allo stesso tempo facile alle risse; e vedere arrabbiato quei due metri di altezza deve aver fatto veramente paura, là sulle sponde del Nilo dove è arrivato, con tutta la pazienza del mondo, su incarico del console inglese Henry Salt, a estrarre dalle sabbie quello che era conosciuto all’epoca, il 1816, come il Giovane Memnone, Ozymandias per Diodoro Siculo, ma che si rivelerà in seguito un busto di Ramses II, uno dei più grandi e famosi faraoni del Nuovo Regno, ora conservato al British Museum. Fu la sua prima impresa, estrarre quel colosso dalle sabbie. Nessuno c’era riuscito prima di lui. Lo studiò a lungo, fece dei rilievi, dei calcoli, misurò, costruì delle leve e dei rulli in legno su cui appoggiarlo e trasportarlo fino al fiume e legarlo poi a delle zattere fino al Cairo. Ci riuscì dopo mesi di studio e tante discussioni con il capo locale, che una volta gli concedeva il permesso di ingaggiare e utilizzare maestranze locali per poi, capricciosamente negarglielo a lavori ormai iniziati. E allora Giovanni doveva contenere la sua rabbia sotto quei muscoli possenti che a Londra gli avevano guadagnato il nome d’arte di Sansone Patagonico (perché la Patagonia era stata appena scoperta e tutti volevano farsi un’idea degli orrori e delle meraviglie che vi conteneva) e doveva negoziare un rialzo, probabilmente non dei salari di quei poveracci ma del compenso di chi amministrava quella zona.
Quella fu la prima volta che utilizzò la sua tecnica: osservava, osservava, faceva calcoli, confrontava quello che ancora non si vedeva con quello che aveva già visto in siti simili, formulava una teoria e poi scavava, scavava lentamente, con rispetto. Era diverso lui dai suoi avversari, loro avevano fretta di scoprire i tesori che le tombe di Luxor nascondevano, facevano saltare in aria le rocce e magari anche i sarcofagi, tanto poi si raccoglievano in giro i resti e c’era guadagno per tutti.
Belzoni visse in un’epoca d’oro per l’egittologia moderna; nato il 5 novembre 1778, sbarcò in Egitto nel 1815 insieme alla moglie Sarah e a un domestico. Fece amicizia con Bernardino Drovetti, piemontese, esploratore e collezionista di antichità (la sua collezione fu acquisita dal governo Piemontese ed è alla base del Museo egizio di Torino), ben conosciuto nell’alta società egiziana e che si era guadagnato la carica di console generale di Francia. Dovretti lo introdusse alla corte del pascià (prima di diventare uno dei suoi peggiori nemici). È in quel periodo che conobbe anche l’archeologo svizzero Johann Ludwig Burckhardt, scopritore di Abu Simbel, Giovanni Battista Caviglia, noto per i suoi scavi sulla sfinge di Giza, e Henry Salt, rivale di Drovetti, egittologo e viaggiatore che nelle vesti di console inglese riuscì ad acquisire importanti reperti ora al British Museum di Londra.
Belzoni era un animo irrequieto. Si godeva la vita e la tranquillità al Cairo per qualche settimana, forse qualche mese se era costretto ad attendere i finanziamenti per le sue imprese, e poi partiva, quasi sempre accompagnato dalla moglie Sarah. Si recò ad Abu Simbel, che Burckhardt aveva scoperto anni prima senza tuttavia riuscire ad accedervi.
Belzoni guardò a lungo affascinato quella montagna di sabbia da cui sbucava qualcosa, ma fu solo in una successiva spedizione, forse fu solo fortuna, forse attenta osservazione, che riuscì a trovare la via per entrare nel tempio. « Al primo sguardo restammo stupiti dall’immensità di quel luogo; trovammo oggetti d’arte magnifici, pitture, sculture, figure colossali» scriverà.
Sull’isola di Filae, vicino ad Asswan, prese possesso per conto del console britannico, di un obelisco con delle iscrizioni ben conservate, che sarebbero state importanti per la decifrazione della scrittura geroglifica. A Luxor scoprì la tomba del faraone Ay, successore di Tutankamon, che codificò con la sigla KV23 (Valley of the Kings n. 23, codificazione a cui si ispira la classificazione moderna) e sulle cui pareti incise scoperta da Belzoni – 1816. Sempre nella Valle dei Re scoprì una delle tombe più belle dell’intero Egitto, quella di Seti I i cui affreschi policromi e i bassorilievi sono stati da poco restaurati. Il sarcofago in alabastro si trova oggi nel John Soane museum di Londra.
Belzoni era solito fare una mappatura della tomba che scopriva, faceva l’inventario dei reperti che trovava al suo interno, eseguiva calchi dei bassorilievi e disegni degli affreschi, materiale che in seguito gli sarebbe stato utile nell’organizzazione di una mostra a Londra di grande successo divulgativo.
Non pago delle scoperte che aveva fatto, tra cui anche l’ingresso della piramide di Chefren a Giza, vicino al Cairo, volle andare alla ricerca dell’antico porto romano di Berenice sul Mar Rosso che qualcuno diceva d’aver individuato sulla costa meridionale vicino al confine con il Sudan. Belzoni attraversò il deserto e scoprì che quello individuato era un insediamento minerario, mentre la vera Berenice gli si rivelò poco più a sud. Non fece in tempo ad esplorarla perché i viveri e l’acqua non gli sarebbero stati sufficienti a riattraversare il deserto.
Che cosa spinse Belzoni, a cui si sono ispirate le imprese di Indiana Jones, a rischiare tutto?
Fu, la sua, una passione che ha origine nell’intimo di una persona, un luogo inaccessibile in cui si trova il motore delle nostre azioni, un soffio che ci ispira, quel qualcosa – una missione? – che dobbiamo fare, accada quel che accada. Un luogo talmente intimo da rimanere inaccessibile anche a noi stessi? O fu, il suo, desiderio di conoscenza, quella che il poeta inglese Tennyson definiva l’arcata mobile dell’esperienza. Più allarghiamo le nostre conoscenze, più l’arco si sposta e ci fa intravedere l’ignoto che aspetta di essere svelato.
O fu la gioia incosciente di seguire le proprie inclinazioni e desideri egoistici, senza porsi tanti perché, senza pensare alle conseguenze, tanto la vita è breve? Il desiderio di mettersi alla prova, di sfidare i propri limiti? Giovanni Belzoni tentò un’ultima impresa, questa volta senza la moglie Sarah, forse per un presentimento. Era il 1823, aveva 44 anni. Voleva scoprire la leggendaria Timbuctù. Non la raggiunse mai. Morì a Gwato un porto fluviale in Nigeria. Fu sepolto sotto un albero. Di lui non resta più niente, nemmeno la tomba.
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