“…Ècci un’altra specie di lavori che si chiamano tedeschi, i quali sono di ornamenti e di proporzione molto differenti dagli antichi e da’ moderni; né oggi s’usano per gli eccellenti, ma son fuggiti da loro come mostruosi e barbari, dimenticando ogni lor cosa di ordine – che più tosto confusione o disordine si può chiamare –, avendo fatto nelle lor fabriche, che son tante ch’ànno ammorbato il mondo, le porte ornate di colonne sottili et attorte a uso di vite, le quali non possono aver forza a reggere il peso di che leggerezza si sia. E così per tutte le facce et altri loro ornamenti facevano una maledizzione di tabernacolini l’un sopra l’altro, con tante piramidi e punte e foglie, che, non ch’elle possano stare, pare impossibile ch’elle si possino reggere, et hanno più il modo da parer fatte di carta che di pietre o di marmi…”.
Ecco in che modo il Vasari (1511-1574) vedeva l’architettura gotica, esprimendo insieme al giudizio estetico un sentimento di sgomento e smarrimento di fronte a linee architettoniche che sembravano soccombere sotto il proprio peso e quasi offendere la forza di gravità. Forse le chiese gotiche offendevano un gusto classico legato a geometrie regolari anche se statiche e pesanti, ma esprimevano una religiosità fortemente interiorizzata, cercando un rapporto con Dio facilitato da un’atmosfera straniante, una sorta di scenografia in cui tutto potesse contribuire a far sentire grande la divinità e piccolo l’uomo. Una doppia identità dunque quella dell’arte gotica, una mistica e una profana, una che vuole spingere alla purificazione, l’altra che ricorda all’uomo l’abisso del male della corruzione. Da una parte linee ardite, archi vertiginosi che si arrampicano uno sull’altro, uno dentro l’altro, per indicare un viaggio spirituale di avvicinamento a Dio, dall’altra un bestiario medioevale che dà corpo a paure ancestrali, materializza la doppia natura dell’uomo, in bilico tra il bene e il male, in figure per metà umane e metà animali. Vetrate immense raccolgono la luce e raccontano con mille colori scene del vecchio e nuovo testamento a fedeli ammirati e rapiti. Ma le architetture audaci intimoriscono, rendono i passi dei visitatori esitanti, incerti, pur nella consapevolezza che quella armonica disarmonia di linee e forme oblique parla essa stessa della grandezza di Dio.
È su questa linea che la mostra fotografica di Daniele Indrigo ospitata all’Aldo Moro di Cordenons nel mese di settembre, e dedicata proprio ad alcune delle cattedrali più note, francesi ed inglesi, ha scelto di proporre i suoi scatti, prediligendo i colori del nero e del grigio, la luce bassa del sole calante. L’artista sacilese che da più di 20 anni è impegnato nella fotografia approfondisce i temi scelti rileggendoli innanzitutto da un punto di vista soggettivo, in una dimensione fortemente interiore. In GOTICA ha consapevolmente evitato di rappresentare una cornice religiosa ormai stereotipata, ha rifiutato la luce delle vetrate, i colori delle iconografie d’effetto, concentrando tutta la sua ricerca su quella dimensione di abbandono a Dio che l’architettura post – romanica voleva esprimere attraverso ornamenti elaborati, che però apparvero barbari e disordinati. Indrigo confessa che i suoi scatti nascono dal di dentro, da una sensibilità che ama il bianco e nero, predilige paesaggi aridi e selvaggi, condizioni climatiche difficili, temperature rigide, cieli puliti ma velati. Di qui una ricerca che ha trasformato le chiese in ambienti straordinariamente espressivi, rivisitati in un’ottica che spazia dal particolare all’insieme, cercando di dare dell’arte gotica quella visione misterica e misteriosa che confessi innanzitutto di essere nata sulle rovine non cancellate di un medioevo oscuro e pauroso. Le foto hanno già qualche anno ma solo da poco hanno visto la luce, perché come lo stesso Indrigo ammette, serve un periodo di decantazione dopo un lavoro immersivo profondo e coinvolgente. Tempo per riacquistare distacco, obiettività, nuove capacità di rilettura critica, per una più efficace scelta e selezione delle immagini. Dunque le foto esposte in questa mostra, denominata Gotica, contrappunti di Architettura, sono quelle che più rappresentano il significato profondo e insieme sfuggente che Indrigo ha cercato nelle cattedrali di Reims, Chartre, Notre Dame e tante altre. Ha usato tempi lunghi per raccogliere la luce che cercava, solo quella sufficiente a mostrare le geometrie del gotico, ha stampato gli scatti con inchiostri a pigmenti di carbone perché le pietre, i marmi, le colonne e gli archi, quasi prendessero corpo, materia e non sembrassero fatte di carta come dice il Vasari.
Sembra di poter cogliere due elementi fondamentali nella ricerca fotografica di Indrigo, due linee guida che felicemente sviluppate sono alla base del successo pieno di questa mostra. Innanzitutto il desiderio di dare corpo e sostanza ad un sentimento religioso in cui si sovrappomgono fervore e timore, desiderio di dio e smarrimento dell’anima; la ricerca di un’architettura sentita come un percorso labirintico, una sorta di via crucis interiore, una prova difficile per gli occhi e la mente nella consapevolezza che la purificazione non è una conquista facile, né scontata. Le chiese di Indrigo sono deserte, silenziose, il luogo ideale per la preghiera, per un autodafè privato, senza pubblico né ostentazione, in una solitudine che assorda solo il peccatore, lo smarrisce e lo lascia alla fine svuotato e perdonato. I pochi tratti umani vengono da gruppi scultorei che lo scatto di Indrigo isola e illumina per ricordare che il luogo è al servizio dell’uomo, ne raccoglie il dolore, le incertezze e le speranze e nel contempo ne registra la storia, quella dei piccoli come dei grandi, per affermare con voce ancora più forte “sic transit gloria mundi”. Se l’intenzione di Indrigo era di tradurre in immagini le atmosfere cupe del medioevo, il senso di smarrimento dell’uomo di fronte alla vertigine divina, bisogna riconoscere che le foto raccontano emozioni intense e profonde, trasportano l’uomo di oggi nel tempo di ieri e gli trasmettono lo stesso disagio, le stesse inquietudini di un tempo più che passato, che però torna a rivivere grazie alla successione quasi ossessiva di foto che non sono quelle di un tour culturale ma piuttosto quelle di un viaggio dell’anima. L’altro aspetto degno di attenzione è la trasformazione dello spazio l’uso, dei tagli obliqui, delle verticalizzazioni, della ricerca di effetti ottici che devono ulteriormente amplificare i vuoti, le profondità e le altezze. Indrigo insegue l’intreccio degli archi, delle volte a crociera, porta il pubblico come sollevato da una invisibile mano a guardare da vicino la navata della chiesa, a toccare colonne e pilastri a “fascio”. Insomma se la chiesa gotica è un insieme di simboli da scoprire, le sue foto pongono l’accento sull’aspetto misterioso e ancora magico che circonda la scelta di un’architettura così disordinata ed insieme tanto potente da sfidare la forza di gravità e quella del tempo. Ma l’azione di Indrigo ha reso l’architettura delle chiese gotiche qualcosa di magico e vivo. C’è quasi un processo metamorfico che trasforma le linee curve in organismi viventi, forme tentacolari che sembrano affiorare dalla fissità della pietra per abbracciare il timido visitatore. Le volte a crociera si trasformano in piovre giganti e le campate sembrano raccogliere decine di pipistrelli in sospensione. La volta della cattedrale di S. Peeter in York diventa una mega stella marina, octoraggiata, le cui punte affermano un sicuro possesso del luogo di preghiera. Lo zoomorfismo medievale di natura pagana, spesso presente nelle sculture e nelle decorazioni del gotico viene qui richiamato da una geometria che si anima, si muove: guardata dal visitatore, lo guarda a sua volta, come fosse cosa viva. Un viaggio intenso dunque quello di Gotica (inserita nel festival internazione della musica sacra, dedicato quest’anno alla figura della “Mater”), un percorso reso ancora affascinante da voluti effetti optical (vedi la campata della chiesa della Beata Vergine Maria di Salisbury) che ipnotizzano, catturano lo sguardo, trascinandolo in un punto di fuga infinito come metafora di un viaggio interiore che supera i limiti della vita (France, Collégiale Saint-Aubin de Guérande).
L’esplorazione del gotico è un processo ancora in corso, molto è stato detto ma queste immagini ci parlano di spazi da approfondire, vuoti da colmare, cercando però risposte non troppo razionali, anzi piuttosto emotive, nella consapevolezza che le cattedrali gotiche sono state sicuramente il segno di un grande amore verso Dio ma anche una pubblica confessione di inquietudini mai risolte. La dolcezza della Mater che perdona e consola, come templum cristiano che ha accolto e protetto nell’oscuro medioevo chi non aveva più difese, sembra cedere il passo, nelle foto di Indrigo, ad una figura paterna severa e austera. Una divinità che nella sua grandezza infinita rimane distante, incute soggezione e talora paura.
Un punto di vista sul gotico, il suo, che va al di là della contingente esposizione dei lavori a Cordenons, una riflessione di spessore che arricchisce il dibattito e invita a letture più attente, anche dei suoi lavori.