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Blognotes 08
Blognotes 15

INCERTEZZA è il tema del numero più recente di Blognotes 15

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Il caso della mela

di Vittorio Giustina

La mela è su un tavolo di casa. Finita lì da un cesto di mele sorelle. L’ho vista attraversando la stanza, indubitabile nella sua silenziosa presenza. E tanto mi basta. La mela, insieme alle innumerevoli cose che mi circondano, è lo sfondo teatrale della mia vita quotidiana. Ma, appena mi ci soffermo con uno sguardo più attento mi sorprendo a pensare che la mela, nella sua gentile e certa consistenza come io la vedo, non ha alcuna somiglianza con la parola “mela” che con cui la nomino e la conosco: segno sonoro, un soffio di fiato che appena espresso scompare o fragile traccia su un foglio cartaceo o digitale….. Una straordinaria e incolmabile  differenza. Eppure, in quale altro modo conosciamo, pensiamo, diciamo della mela se non  nel nome che le abbiamo dato, la confortevole certezza con cui dico che so bene di che cosa parlo, della mela e non del libro che le sta accanto?

 

La rassicurante, stretta intimità che lega la mela con la “mela” ci viene comodo quando dobbiamo acquistarne un chilo o cercare in un ricettario quella più adatta per fare la mostarda. Sempre che non sia con noi un ospite amico, francese, tedesco o inglese, che conoscessero solo la loro lingua. Per loro la mela è pomme, apfel o apple. Così, per necessità di cose, quel frutto col suo picciuolo, colorata fra il verde e il rosso che si raccoglie tra agosto e ottobre, venuta in secoli lontani dal Kazakistan e arrivata in Grecia poi a Roma fino ad una valle del Trentino, nell’anagrafe del mondo è battezzata con una molteplicità di nomi diversi. Cosa che non minaccia ancora alcuna delle nostre certezze sulla mela.

 

Nel caso, abbiamo sottomano i dizionari con cui tradurne i nomi e, se ne avessimo la curiosità,  l’etimologia per ripercorrerne all’indietro la storia:  storia della mela e dei nomi che l’hanno accompagnata e la accompagnano ancora oggi. Cosa ben più complicata, dico en passant, in tempi quando solo una stretta minoranza sapeva leggere e scrivere e i dizionari d’uso comune non erano ancora in circolazione. La famiglia delle mele, universalmente intesa, era allora più incerta e sommaria nella sua identità. Come le prime carte di navigazione con cui inoltrarsi per  terra o per mare. Ci appare allora chiaro che, mentre la mela sta sul mio tavolo nella sua rassicurante e solida consistenza come accertato  dalla mia indubitabile percezione, la “mela” nel suo nome e in quello delle sue tante sorelle, è frutto di una ingegnosa costruzione culturale di singolare mutevolezza. Così, non potendo le mele nominarle ad una ad una nella loro singolarità, come ogni altra cosa  al mondo, la indichiamo in una grande famiglia dove le abbiamo raggruppate.

Foto di NoName 13 da pixabay – modifica di Marco Casolo

 

La nostra mela sul tavolo quindi non solo non ha un nome proprio non rientrando nell’anagrafe privata con cui molti, senza cerimonie, hanno invece battezzato i cani e i gatti che girano nelle loro case, ma neppure la pretesa di rappresentare tutte le migliaia di varietà che sono nel regno delle mele, pur potendo vantare una sua appartenenza al nobile ramo delle golden delicious che il negozio di frutta e verdura sotto la mia casa acquista da un rivenditore della valle di Non in Alto Adige.

Il caso delle mele, ma così per le pere, le ciliegie e i cavalli, chiarisce bene che per aggirarsi in quei mondi  sarebbe stato  impossibile senza l’aiuto di quel mirabile giocoliere che è il linguaggio umano. E’ con la sua arte di domatore di leoni e di trapezista  che abbiamo ordinato l’intero mondo in una fitta rete di frutti o di animali dentro cui potersi orientare. Allo stesso modo, una infinità di altre cose nate nella natura o nei nostri laboratori.

 

Ma se questa riflessione forse chiarisce qualcosa del rapporto fra la parola “mela” e la mela, cioè fra le parole e le cose, c’è un altro aspetto che non potremmo in nessun modo trascurare. La mela sul tavolo, sempre uguale a sé stessa, non è tale nello sguardo con cui ognuno la incontra. Lo sguardo su di essa è mutevole: di indifferenza, golosità, interesse culinario per farne un succo o una mostarda,  evocando persino, in quello di un aspirante pittore, i cesti di frutta del Caravaggio o una natura morta di Cèzanne. Per non dire del carico simbolico di alcune celebri, leggendarie mele, come   quella caduta in testa a  Newton o spiccata da Adamo dal fatidico albero del Paradiso Terrestre.

In questa luce, ogni oggetto del mondo non è mai una cose neutra, chiusa in un suo inerte silenzio. Tutti gli oggetti stanno in attesa, pronti ad interagire, per così dire, con chi li osserva e li usa, abitati dalla tonalità affettiva di chi li incontra, li usa e li pensa (ricordo la devozione con cui un amico conservava le pipe che il nonno fumava). Ma esemplare tra tutti, la casa in cui abitiamo. Gli arredi, le finestre con le tende e i vasi di fiori sui davanzali, gli scaffali dei libri che amiamo, i quadri appesi alle pareti, i colori che abbiamo dato alle sue stanze, la disposizione dei mobili, sono l’immagine rivelatrice di chi li abita: tra il nido accogliente e la cuccia di una vita incasinata. Un buon osservatore ne ricaverebbe una seconda carta di identità dell’ospite pur non sapendo nulla del suo volto e del nome che porta….

Resta a questo punto della nostra breve esplorazione attorno alla mela una fondamentale domanda che potrebbe essere sentita come paradossale. Paradossale e persino stravagante, con il sospetto che, come fantastichiamo sugli unicorni, così potrebbe accadere con interrogativi che, di primo acchito, ci paiono temerari e inconcludenti. Eppure, difficile non chiedersi con meraviglia: cosa è la mela e, generale, ogni altro oggetto del mondo e noi stessi che li nominiamo? I grandi filosofi greci per indicare la sorgente di quella straordinaria curiosità hanno usato il termine thauma, cioè un’esperienza di drammatico, inquietante stupore. I filosofi direbbero ancora che da quella meraviglia è nata la domanda di tutte le domande: perché dell’Essere, cioè di noi e delle cose. Una inquietudine che credo riecheggi implicitamente nell’opera di tutti i grandi pittori. Come dicono le mele di Magritte, certi paesaggi di De Chirico, le tele di Mondrian, Klee e le opere di Burri solo per citare alcuni nomi: immagini dove si dissolve ogni essenziale sapere pratico con cui comprendiamo e ci muoviamo nel mondo, la grande costruzione delle nostre necessarie e indispensabili certezze per vivere una vita comune senza smarrirci di fronte alla mela che vediamo sul tavolo della cucina di casa, per inaugurare un linguaggio altro che esce dai parametri della classificazione, il calcolo e la misura, verso orizzonti che io credo allusivi dell’enigma che noi siamo.

La domanda sull’Essere, mi rendo conto, è una tuffo temerario dove ci si può anche rompere l’osso del collo perchè sembra trascinare con sè ogni nostra certezza in un orizzonte di inquietante incertezza.  Per cavarmela, dopo aver buttato il mio piccolo sasso nello stagno, ho deciso di affidarmi a una celebre pagina di Sartre che dice, come non saprei fare io, il senso del “thauma” di fronte alla realtà che ci sta testardamente davanti senza mai lasciarsi risolvere in un processo conoscitivo compiuto, un approdo definitivo. Il protagonista, alter io dell’autore, è sulla panchina di un parco e sotto di essa affiora una grande radice:

Foto di Francesco Miressi

Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi ho avuto questo lampo di illuminazione. La funzione non la spiegava: permetteva di comprendere all’ingrosso che cosa era una radice, ma per nulla affatto la radice stessa. Questa radice qui, col suo colore, la sua forma, il suo movimento congelato, era al di sotto di qualsiasi spiegazione o piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Avevo la testa vuota, o soltanto una parola, in testa, la parola «essere».

Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire «esistere». Ma io, poco fa, ho fatto l’esperienza dell’assoluto: l’assoluto o l’assurdo.

Quella radice: non v’era nulla in rapporto a cui essa non fosse assurda. Oh! Come potrò spiegare questo a parole? Assurda: in rapporto ai sassi, ai cespugli d’erba gialla, al fango secco, all’albero, al cielo, alle panche verdi.

Assurda, irriducibile; niente – nemmeno un delirio profondo e segreto della natura – poteva spiegarla.