Una cosa è certa: nel cinema regna sovrana l’incertezza. Del resto lo scriveva già nel 1490 Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, che ”Del doman non v’è certezza”, ovvero ben 400, e passa, anni prima dell’invenzione del cinematografo che proprio sulla mancanza di certezza ha fondato tante sue lodevoli e lodate strutture narrative. Accanto ad innumerevoli eroi positivi, più o meno super, il cinema, dalla notte dei tempi, ha frequentato abitualmente storie legate alla crisi della soggettività, alle difficoltà dei rapporti con il mondo, all’estraneità verso nuovi orizzonti, all’incertezza.
Sullo schermo ci siamo imbattuti frequentemente su un mondo popolato da eroi/antieroi che vivono la crisi, la perdita di identità attraverso la sperimentazione di nuovi rapporti complessi con l’esistenza, con la religione, con la solitudine, con la crisi del senso. Sono eroi/antieroi non costruiti sul conflitto ma sulla ricerca, non sull’azione, ma sulla crisi, non sulla soluzione dei problemi, ma sulla loro invenzione, non sul superamento degli ostacoli, personaggi che vivono una ricerca difficile, contraddittoria, incerta.
Tutte tematiche che hanno alimentato tanto cinema d’autore, come nel caso del riconosciuto maestro Luis Buñuel, dove la visualizzazione della frustrazione e della deviazione del desiderio vengono declinate in fragilità interne; dove quell’oscuro oggetto del desiderio riesce a scoprire la propria vocazione allo scacco, alla frustrazione, all’insoddisfazione. Tutti elementi giunti fino a noi nel recentissimo Estranei scritto e diretto da Andrew Haigh che ha declinato in versione gay l’incertezza di una storia, intensa e ipnotica sull’amore e la perdita.
Incertezza così cara al cinema che il glorioso portoghese Manoel de Oliveira, nella sua lunga e prolifica carriera, l’ha infilata addirittura nel titolo del film Il principio dell’incertezza (O princípio da incerteza) presentato a suo tempo in concorso al 55º Festival del Cinema di Cannes.
La tematica della mancanza di certezza di ogni riferimento, della difficile conoscenza della realtà, dell’impossibilità di arrivare a una verità univoca e definitiva ha caratterizzato tutta la produzione di Luigi Pirandello che, a sua volta, ha influenzato tanto cinema, non solo di Luis Buñuel, ma anche di Akira Kurosawa, François Truffaut, Woody Allen, Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni e più recentemente Marco Bellocchio con Enrico IV (1984), L’uomo dal fiore in bocca (1993) e La balia (1999), i fratelli Paolo e Vittorio Taviani con Kaos (1984) e Tu ridi (1998), Mario Monicelli con Le due vite di Mattia Pascal (1985) oltre ad altri autori di cinema che, indirettamente, coscientemente o inconsciamente, sono stati influenzati dall’incertezza pirandelliana. Non ultimi Joel ed Ethan Coen nel film A Serious Man dove, nell’incertezza di ogni riferimento, fra l’indeterminabilità del vero e del falso, perde valore anche il sistema morale fondato sulla distinzione fra il bene e il male.
Incertezza riassunta mirabilmente nelle parole di Roman Polanski che a suo tempo dichiarò: «Io non voglio che lo spettatore pensi in questo modo o in quest’altro. Voglio solo che non sia sicuro di niente. È questa la cosa più importante: l’incertezza».
Sulla base di questa incertezza, a suo modo granitica, Federico Fellini ha costruito il suo massimo capolavoro Otto e mezzo, con Marcello Mastroianni, perfetto alter ego del regista, che oscilla fra moglie e amante, che non sa come portare avanti il suo progetto cinematografico, che vorrebbe fuggire dal set. Una perfetta simbiosi fra finzione e realtà, con Fellini indeciso sul finale che vorrebbe rappresentato da un treno che corre verso il nulla, l’oscurità, verso la morte con tutti i personaggi del film vestiti di bianco. Solo in fase di montaggio il grande riminese ha cambiato registro virando sul circo e il girotondo che tutti conosciamo.
L’incertezza del resto accompagna fin dall’inizio della sua carriera un altro italico autore burbero, ironico, nevrotico, sarcastico, intellettuale, politico come Nanni Moretti che ha fatto della sua opera, a totale sua immagine e somiglianza, il suo universo narrativo auto-riflessivo, a volte diaristico, scarno, ma che si configura spesso come una sorta di seduta di psicoterapia diffusa, inanellando una lunga maratona di disillusioni sia personali che collettive. Una poetica, quella di Moretti, che esprime la sofferenza dell’incertezza, un cinema che diventa cura per tentare di decifrare il mondo, o quantomeno per interpretarlo, per interrogarlo con una lucidità sempre inedita oltreché unica. Insomma un cinema essenziale e corrosivo, fatto di incertezza, di dubbi; un cinema che chiede a sé stesso di dirimere i meccanismi dell’ossessione, di fronte all’incongruenza di una società fluida, mutevole, omertosa e indifferente con cui il nostro non riesce a comunicare. Una incertezza senile a differenza di quella incertezza del futuro abbracciata con l’entusiasmo, il coraggio e l’ingenuità adolescenziale dal protagonista dell’ultimo film di Matteo Garrone Io Capitano, Leone d’Argento alla 80ma Mostra del Cinema di Venezia; un racconto che invita a riflettere sul bisogno di scoprire il mondo, andare all’avventura ed essere protagonisti del proprio destino. In definitiva, di superare l’incertezza del futuro.