Il tema del doppio nel mondo classico evoca una serie di spunti che curiosamente orientano sui versanti opposti della morte e del comico. Il tema è abbastanza diffuso nel mito e nelle opere letterarie e spesso pare connesso con un medium, uno strumento specifico del doppio, ovvero lo specchio.
Il primo episodio di doppio mi pare incredibilmente suggestivo, quasi un’esplosione di senso, un contenitore infinito di domande irrisolte. Penso al duello di Ettore e Achille nel libro XXII dell’Iliade.
“Achille veniva, con la destra, palleggiando con malanimo contro il divino Ettore: e intanto spiava il suo corpo splendido, dove colpire più giusto. Ma anche lui, Ettore, lo coprivano le armi di bronzo: le belle armi che aveva tolto al forte Patroclo, dopo averlo ucciso”.
Ettore ha ucciso Patroclo, gli ha rubato le armi che, come è noto, erano di fatto le armi di Achille. Costui nel frattempo ha avuto in dono armi nuove costruite da Efesto in una lunga descrizione che occupa buona parte del libro XVIII.
Nel momento del duello dunque Ettore, il nemico per eccellenza di Achille, indossa l’armatura di Achille che ha spogliato a Patroclo, cioè esteriormente egli è Achille. Ettore è Achille, quindi Achille combatte contro Achille, contro il suo doppio. L’armatura in molti luoghi, a partire dai Sette a Tebe identifica il guerriero, per cui nello scontro Ettore Achille dobbiamo vedere un duello ancora più intrigante e pericoloso: Achille contro Achille, appunto, cioè l’eroe che in prospettiva uccide se stesso. E già ci avevano di fatto preparato le parole della madre Teti quando a Iliade XVIII profetizza:
Gli rispondeva Teti allora in pianto: «Avrai, oh, sì, figlio mio, un’esistenza breve, da come parli. Subito dopo Ettore, te lo dico, la tua fine è certa.»
Dunque il primo doppio della letteratura occidentale è un doppio pensato, per nulla banale, con una dinamica interna che dice molto sull’esistenza di noi uomini. Ci racconta per esempio che l’altro siamo noi e che uccidere l’altro è uccidere noi stessi (il nostro esistere è esserci per amare l’altro, così diceva per esempio Jankelevitch, sintetizzando al massimo e quindi uccidere l’altro è uccidere noi stessi). Suggestione ancora più stupefacente visto che è contenuta in un poema dedicato interamente alla guerra.
C’è una variante successiva in cui si parla di questa identità e della sua conclusione disastrosa. Medium, dicevo, è lo specchio, oggetto pericolosissimo, kathoptron, cioè qualcosa attraverso cui si guarda e si sprofonda. Con lo specchio si affrontano i propri demoni come sembra alludere l’episodio di Bellerofonte e la Medusa: la Medusa pietrifica ma lo sguardo di sé su di sé è pietrificazione al quadrato, corto circuito che annienta.
Il mostro stesso è ucciso servendosi di uno specchio portato sulle spalle dell’eroe che in questo modo evita di guardarlo direttamente. Guardare la propria immagine è destabilizzante, nel demone Medusa porta all’autoparalisi.
Così il doppio di Narciso che si innamora di sé, del proprio doppio rispecchiato in un laghetto. Il doppio chiude ogni via di scampo e il richiamo di Eco diventa nulla davanti a questo irretimento autocentrato. Il doppio attira e uccide.
Vi è una dimensione di doppio anche nella vicenda di Edipo, se ci pensiamo, cioè di quel doppio che qui provvisoriamente chiameremo “problematico”. Edipo ad un certo punto della sua vicenda occupa una posizione ambigua, cioè occupa due posizioni: è padre dei suoi fratelli, marito di sua madre, questo è quello, inguardabile, come un difetto ottico che mostra due figure identiche sfalsate, rifratte. Perché il doppio é sempre identità ma con un margine di cruciale differenza.
Questa serie di doppi problematici apre la via a Wilde, Kafka, Hoffman, cioè al grande dramma della divisione interiore, del farsi due, in una sorta di percorso contrario a quello dell’amore, catastrofico, che rende impossibile riguadagnare la posizione statica originaria, veritiera.
E poi l’antichità ci ha consegnato l’altra strada, i doppi che magari definiremo comici. Ogni tragico ha il suo comico, si sa, ogni lettura profonda del sé va esorcizzata con una barzelletta.
Anfitrione è sposato con la bella Alcmena ma deve andare in guerra contro i Teleboi e, insomma, sta lontano da casa per un po’. A Zeus basta per innamorarsi della bella mortale, trasformarsi in Anfitrione2 identico all’Anfitrione1, farsi aiutare da un Hermes, dio dei ladri trasformato in Sosia2, ovvero la copia identica del servitore Sosia1 di Anfitrione1 et, voilà, la commedia è servita! Plauto ne fa un piccolo capolavoro con dei dialoghi surreali del povero Sosia con Hermes, cioè con … se stesso, e conseguente incertezza sulla propria identità (“Ok, ma se tu sei Sosia, io chi sono?”).
Fra parentesi il nostro “sosia” viene proprio da qui. Oppure dei comicissimi dialoghi in cui la povera Alcmena, appena goduta (e ingravidata) da Zeus=Anfitrione 1, vede ritornare il marito con le stesse pretese erotiche. E’ ovvio che nella commedia il tema del doppio dà luogo sempre e comunque ad una serie di equivoci che fanno ridere e sarà ampiamente sfruttato da Plauto (nei Maenechmi, nelle Bacchides o, in forma più raffinata, nel Miles gloriosus).
C’è, a pensarci bene, anche un doppio filosofico, il mostriciattolo a quattro gambe e quattro braccia che eravamo noi all’origine e che nel Simposio platonico viene tagliato in due da Hermes per ordine di Zeus, due metà identiche e/o complementari appunto. Interessante punizione, questa separazione coatta dal nostro doppio, una missione spasmodica e dolorosissima quella di tentare la ricongiunzione, metafora splendida e abusata dell’amore. Trovare l’altra metà, il nostro doppio che finalmente ci completi e ci dia pace… Ma tutti noi l’abbiamo sperimentato e, con buona pace di Platone, pare impresa quasi disperata ancorché lodevolissima.
Ma come si vede il mondo antico di fatto è parco di riflessioni sul doppio, concentrato com’è su un altro tema, che lo precede di necessità ed è ugualmente spinoso, ovvero il tema dell’identità. Il mondo antico si chiede con insistenza e profondità “Tis ei?”, chi sei. Lo chiede ogni ospite all’ospite che arriva, lo chiede Polifemo a Ulisse, lo chiede il guerriero prima di uccidere il suo rivale. Il doppio è qualcosa di concreto, esterno a noi, pericoloso e mortifero. Che noi siamo noi e che al tempo stesso esista dentro di noi un nostro doppio, identico o complementare, è invece prurito modernissimo anche se gli antichi avevano forse il sospetto fondato che si sarebbe finiti proprio lì. Ho sempre pensato che le due massime del tempio di Delfi andassero lette insieme: “Gnóthi sautón“, conosci te stesso, ovvero l’identità, e “Medèn ágan“, mai troppo. Forse che a conoscersi troppo si potesse finire per scoprire che non siamo così unitari come pensiamo ma addirittura … doppi dentro! O che magari, a scavare troppo, si scoprisse quell’altro io che è il nostro subconscio, il nostro vero doppio, con cui fare i conti è davvero difficile.