Fra i tanti incontri che hanno costellato la mia attività cinematografica (Sergio Leone, Michelangelo Antonioni, John Huston, Bernardo Bertolucci, etc.) quello con l’iraniano Mohsen Makhmalbaf è stato uno dei più emozionanti. Cineasta, montatore, poeta, sceneggiatore, rivoluzionario al tempo dello scià, Moshen Makhmalbaf è tra i più originali e complessi registi del cinema iraniano degli anni ‘90 assieme ad Abbas Kiarostami. Da questi due maestri del cinema discenderanno, nel nuovo millennio, altri autori iraniani pluripremiati nei festival e agli Oscar come Jafar Panahi, Asghar Farhādi e tanti altri.
Di Mohsen Makhmalbaf nel 1997 era uscito in Italia un suo capolavoro Il pane e il fiore un sorprendente film metacinematografico, una splendida opera poetica con un forte messaggio pacifista. La storia si dipanava fra diversi piani temporali che si sovrapponevano permettendo all’autore una poetica riflessione sulla funzione del cinema come mezzo capace addirittura di cancellare i rancori e riscrivere la Storia. Con la forza della poetica metafora Makhmalbaf riassunse il passato e il presente di una società iraniana chiusa in un dogmatismo, prima religioso e poi politico, cercando di costruire un futuro di apertura e dialogo. Un’opera che aveva colpito per la forza poetica e quindi dirompente del suo messaggio.
L’anno seguente, 1998, il regista venne invitato in concorso con la sua ultima opera Sokout (Il silenzio) alla Mostra del Cinema di Venezia e quale occasione migliore per incontrarlo. Grazie all’amica Marzia Milanesi, che curava per il film l’ufficio stampa, ottengo la possibilità di un incontro privato al di fuori del caos che regna sempre nelle conferenze stampa. In un salottino dell’hotel Excelsior al Lido, Mohsen Makhmalbaf mi accolse con il sorriso, la disponibilità al dialogo e la serenità propria dei poeti, dei visionari, di coloro che riescono a vedere nella realtà del momento cose che sfuggono al comune mortale. A Venezia aveva appena presentato con successo Sokout (Il silenzio) diretto, scritto e montato da lui stesso con la collaborazione della moglie e delle figlie. Un film che ha segnato ancora di più la svolta del suo cinema verso la poesia e la metafora. Il titolo rifletteva, infatti, lo spirito del film che suggeriva appunto il silenzio come calma interiore, che invita a mettersi in ascolto, a cercare il proprio suono in un rapporto diretto con la poesia e la natura. Appena apprese che ero italiano mi disse di essere «incantato dal neorealismo.» e aggiunse «quando vedo Ladri di biciclette non posso non piangere, pur non essendo un film romantico». È questo il cinema che lui ama, quello che va alle radici di un linguaggio scarno e asciutto ma di grande intensità; ed è questa la lezione che ha assunto dal neorealismo italiano. Autobiografia e poesia si mescolano continuamente nei film di Makhmalbaf, ma la censura del suo paese è implacabile e Sokout (Il silenzio) è stato costretto a girarlo nel Tagikistan, ex repubblica sovietica al Nord dell’Iran.
In Il silenzio ci sono riferimenti espliciti alla poesia.
Lo spirito generale del film si rifa al pensiero di Kayami “Vivere l’attimo fuggente”, a questo si riferisce la poesia che i bambini cercano di imparare sull’autobus.
E questo anche il momento in cui si dice che “l’occhio acceca il cervello”, radicalizzando questo aspetto dell’ascolto.
Il film è incentrato sul suono, per questo il protagonista doveva essere un cieco che arriva alla conoscenza del mondo esterno attraverso il suono. Il suono ci porta verso una dimensione surreale, più dell’immagine scatena la nostra fantasia. Nel cinema dove non arriva l’immagine arriva il suono. Il film segue la «logica” di un cieco, quindi privilegia il senso dell’udito.
E determina una scelta di stile: campi stretti, primi piani e dettagli.
Non potevo utilizzare un campo largo, il campo largo è per chi vede. Non potevo fare tutto buio, perché siamo nel cinema. Ho cercato di stare molto vicino ai volti, di cogliere dei dettagli, ma di non far vedere troppo il contorno. Ho usato spesso il teleobiettivo in modo tale che lo sfondo risultasse schiacciato e sfocato, in questo modo quello che si vede non è tutto chiaro.
Lei lavora sempre con attori non professionisti.
A parte due film ho sempre lavorato con attori non professionisti. Questi danno il meglio quando vengono provocati. Non posso dare a loro una sceneggiatura, allora cerco di suscitare la loro reazione. In Il pane e il fiore ad esempio i protagonisti non sapevano che cosa sarebbe successo loro, cosa gli avrebbe detto la persona che andavano a incontrare. Questo mi consentiva di ottenere reazioni spontanee alle domande e avere quindi un momento di vera spontaneità. Ciò che mi interessa dei protagonisti dei miei film è farli vivere e non recitare.
Lei da un lato lascia spazio all’improvvisazione, però controlla tutte le fasi della lavorazione del film.
Il fatto che faccio tutto mi permette di essere libero e di relazionare i vari momenti, La sceneggiatura è sempre una traccia minima che si deve contaminare con gli altri momenti della lavorazione. Si tratta di seguire il corso degli eventi, ma alla fine sono sempre io che decido. Il mio è un metodo che ha a che fare con la verità e il controllo. C’è un poeta che dice “non leggiamo libri in cui non c’è in soffio di vento”. Non posso fare film in cui la verità non sia attraversata da un soffio di vento, ma non posso permettere che questo vento spazzi via il giardino.
Il suo film non può considerarsi esplicitamente politico, ma parla di libertà, di scelte, del presente.
Per me il cinema come l’arte è liberatorio, ma non in senso strettamente politico. Sto parlando di libertà di immaginario, di libertà interiore. Certo non si può fare rivoluzioni con il cinema. Ma il cinema aiuta a far pensare in modo diverso. C’è un cinema che si fa manifesto, che quindi è esplicitamente politico, c’è un cinema filosofico esistenziale che fa pensare al presente e che diventa uno specchio in cui la gente si vede si “ripensa”. Questo cinema si puo trasformare in una rivoluzione molto lenta.
Nel salutare Makhmalbaf ero così emozionato che dimenticai il maglione che avevo sulle spalle e che appoggiai durante il colloquio su una poltroncina. Era ill settembre del 1998, avevo l’intervista in esclusiva a Moshen Makhmalbaf per il quotidiano con cui collaboravo all’epoca. Allora, come oggi del resto, le notizie che arrivavano in Italia dall’Iran erano preoccupanti sul livello di fanatismo religioso e di repressione che circolava in quel paese. Ma la serena forza interiore che emanava Makhmalbaf, frutto anche di secolare profonda cultura mi convinse che bisognava conoscere di più quel lontano paese e l’anno dopo eravamo a Shiraz, una delle tante tappe di un memorabile viaggio, nel sud dell’Iran, al mausoleo del poeta Hafez, autore celeberrimo nel suo paese, la cui tomba in un trionfo di fori coloratissimi è meta di continue visite di giovani coppie iraniane che poi sostano, fumando il narghilè stesi su un tappeto, sotto gli alberi di arancio in fiore che profumano l’aria. Poesia nella poesia.