La Pordenone antica e la Pordenone contemporanea è caratterizzata da forme dell’urbanizzazione e dinamiche delle trasformazioni avvenute nei tempi con l’ultima principale degli anni ’60-’70.
La Pordenone delle grandi e medie fabbriche, la città delle caserme, la città del pieno sviluppo economico, sociale ed industriale è finita da tempo.
Qualcuno scrisse che “città e territorio sono concetti in evoluzione”.
Se Pordenone prima rappresentava la classica città di Provincia meta di approdo per molte famiglie perché lavoro, sicurezza, strutture, servizi e una buona rete commerciale la rendevano tale, ora questo non esiste più.
Quella città non esiste più non solo per colpa di amministrazioni politiche locali ma per responsabilità, se possiamo dire cosi, di un sistema politico più grande (regionale e nazionale) che non ha saputo interpretare i cambiamenti in atto nel nostro Paese.
La città non è più centro di approdo e la costruzione di cosi tanti centri commerciali (che in altri Paesi sono da tempo in via di abbandono, vedi Stati Uniti) ha contribuito allo svuotamento di una parte del valore della città stessa soprattutto della città consolidata come il centro storico. Se a questo mettiamo lo sviluppo commerciale online, la deindustrializzazione, la smilitarizzazione etc. etc., il colpo per la città di Provincia di piccola entità numerica è comprensibile.
Non centro di grandi industrie ma di piccole/medie aziende che puntano alla tecnologia e alla qualità che in fondo già esistono.
Non centro di grande distribuzione ma di piccole realtà che possono offrire prodotti di eccellenza a km zero.
Non centro di interesse solo commerciale ma anche di esperienze uniche legate al territorio. (Cultura, Agricoltura, Artigianato)
Credo che si debba puntare ad un nuovo disegno urbano in cui i punti focali siano le prospettive dei viali, le piste ciclabili, le aree dedicate (bambini, animali domestici, anziani, studenti), il percorso fluviale, i parchi e prospettive urbane che riprendano elementi dell’insediamento contemporaneo ormai diffuso in molte città europee.
Bisognerebbe inserire delle dimensioni economiche al ruolo e alla funzione urbana. La nostra città offre culturalmente momenti di alto significato nazionale e internazionale (Pordenonelegge, PordenonePensa, Pordenone Musica, Dedica, Cinemazero, Le Giornate del Cinema Muto…) ma credo si possa anche spingere di più, intendo le tracce di un vasto insieme di pratiche, quelle del continuo e consapevole modificare lo stato del territorio e della città in funzioni decentrate ed inclusive per un territorio più vasto. Nonostante tutto, questa positiva attività culturale sembra che non marchi il passo con i cittadini che rimangono sempre caratterizzati come “piccoli provincialotti” e questo è leggibile anche nella sua produzione edilizia e dei piccoli cambiamenti urbanistici in grado di produrre.
La città, per assumere un nuovo ruolo centrale nel territorio e misurarsi, dovrebbe darsi un “ruolo” diverso. Dovrebbe darsi obiettivi più grandi come quello di unire tre centri quali Porcia, Cordenons e Pordenone costituendo di fatto un’unica città, una città policentrica. Aggiungo una città di verde come collegamento tra un territorio e l’altro. Avere un senso urbano di più grandi dimensioni per poter usufruire di quelle proposte nazionali ed europee che vengono offerte.
Ognuna con le proprie diverse specificità ma anche legate alla tradizione locale in continuità con la loro storia. La “città rete” è la città del domani, di cui spesso si legge in diversi libri come “la città di domani” di Carlo Ratti, non ha a che fare solo con la rete internet affinché questa sia sempre più veloce ma anche con l’organizzazione funzionale della città stessa. Questa “rete” mira anche al recupero di ciò che è possibile del passato con edifici storici a nuova funzionalità, percorsi nel verde per raggiungere diverse parti della città e far diventare alcune località, quartieri come veri e propri “luoghi urbani”.
La città in rete dicevo, come Pordenone, potrebbe avere un asse verde lungo il fiume che collega la fiera sino a raggiungere Cordenons.
Potrebbe avere percorsi analoghi per collegarsi, anche, con Porcia e Roveredo.
Ho letto recentemente un articolo che dice “e se progettassimo le città secondo la regola 3-30-300?”. Il direttore olandese del Nature Based Solutions Institute ha ideato una regola per capire se abbiamo abbastanza verde intorno a noi.
Si chiama regola del 3-30-300 e funziona così:
• Affacciatevi dalla vostra finestra e guardate se vedete almeno tre alberi di discrete dimensioni;
• Ogni quartiere dovrebbe avere il 30% di copertura di alberi
• Il parco o lo spazio verde più vicino a voi dovrebbe essere a 300 metri da casa/scuola/lavoro
In realtà Pordenone può definirsi benissimo, senza ombra di smentite, una città verde.
Negli ultimi anni Pordenone ha visto una serie di progetti pubblici che hanno cambiato la sua visione rendendola più città con parchi aperti, lunghi percorsi in mezzo al verde, una rete fognaria quasi completa, cosi come lunghi percorsi ciclo-pedonali.
Sono dell’opinione che il cittadino possa criticare tutto ma non quando è un privato che fa impresa, in molti casi con esposizioni economiche di rilievo e che infine risponde a quanto il piano regolatore generale ed altre normative dell’Amministrazione Comunali e tecnici richiedono.
La città di Pordenone non è una città di grattacieli ma può benissimo presentare dei palazzi che si sviluppano in verticale, se poi lascia una parte a verde al piano di campagna meglio ancora. Non credo che dei palazzi sviluppati in altezza possano diventare elementi e fatti urbani divisivi anche se questi dovrebbero avere un piano urbanistico limitato ad una certa area, come spesso si vede in moltissime altre città.
Discutere dell’operato pubblico è invece cosa diversa.
Anzi il cittadino deve manifestare la sua contrarietà o appoggio quando i progetti investono la città.
La città, come cosa umana per eccellenza, è costituita dalla sua architettura e da tutte quelle opere che ne costituiscono il reale modo di trasformazione della natura.
Tra i progetti futuri ci sono due che dividono i cittadini e portano anche a forti contrasti politici. Uno riguarda una sala polivalente che sarà costruita in vetro davanti a Cinemazero e coprirà un’area pari alla larghezza, appunto, di Cinemazero e una lunghezza che copre i due terzi del piazzale antistante lo stesso e l’ingresso del Liceo Leopardi- Majorana.
Eppure è strano che ciò possa avvenire quando le facciate degli edifici menzionati pare siano tutelati dalla sovrintendenza e se non lo fossero, dovrebbero, visto che fanno parte di una architettura monumentale con riferimento al passato.
Un volume di vetro, un’architettura alla “Mies Van Der Rohe”, che però sarebbe ostativa per la visuale che ha il liceo ed il prospetto di Cinemazero cosi come sarebbe ostativa anche per gli accessi primari al liceo stesso.
Sarebbe molto più “accattivante” l’idea che tale struttura venisse edificata nel cortile interno facendo di questo un parco, un giardino a verde invece di uno spazio in ghiaino. Mi risulta, infatti, che anni orsono, c’era stata una proposta per fare una specie di “anfiteatro” collegato al Cinemazero. Cosi come sarebbe stato ancora più “ingegneristico” fare una struttura ipogea sotto l’attuale piazzale.
È argomento attuale quello che coinvolge il progetto dell’ex-fiera di Pordenone atto a far diventare l’area una “cittadella dello sport”.
Non è mai stato posto in dubbio la qualità del progetto in sé in quanto non è il punto della discordia e nemmeno lo si conosce nella sua ultima stesura. Il punto è il taglio di circa 52 tigli che caratterizzano l’area da molti anni e molte generazioni di cittadini.
Nel tentativo di delineare le peculiarità di un dibattito che ruota su un nuovo progetto che cambierà un’area della città a molti cara, si possono seguire diverse modalità di analisi come, per esempio, prendere in considerazione la scala dell’area che comprende le costruzioni e gli spazi non costruiti che la circondano; oppure la scala del quartiere in cui insiste l’area ed infine la scala della città intera in cui questo progetto in effetti dà il suo contributo per essere configurata come tale.
Anzi si può ritenere che la città è una totalità che si costruisce da sé stessa e su sé stessa e che tutte queste insieme concorrono a formare l’âme de la cité”.
Infine, mi prefiggo di arrivare ad una lettura che non riguardi solo, anche se importante, l’abbattimento o meno di numerosi alberi esistenti, ma anche se concretamente il progetto cosi finalizzato possa costituire un fatto urbano significante.
In realtà il progetto o il suo taglio progettuale potrebbe entrare in una analisi che caratterizza la polemica in atto.
Uno studio di progettazione nell’affrontare un progetto ha relazioni con la committenza, con il responsabile per i lavori pubblici, con l’assessore di competenza e forse anche con le associazioni sportive che sono interessate all’area di progetto.
Quindi c’è o dovrebbe esserci stato uno studio dell’area e del suo contesto comprendendone i vincoli o gli stimoli per il progetto stesso.
Questo metodo è sempre stato oggetto di insegnamento nelle varie università di architettura a prescindere dallo spessore e qualità dei docenti avuti o del grado di apprendimento e sensibilità degli studenti stessi.
L’area in oggetto infatti presenta quelli che possono essere considerati “fatti urbani” uno naturale, quindi la presenza di tanti alberi ad alto fusto, ed uno costruito che è individuato nella presenza dell’edificio storico “del balilla” di architettura “fascista”.
L’architetto si muove dentro un labirinto di vincoli, di suggerimenti, di “doverose richieste” ma è anche vero che, se si opera in etica più che estetica, il progettista deve e può prendere posizione nel far rispettare i propri “limiti” di intervento. Nel nostro caso il rispetto delle piante esistenti.
Fatto sta che questa piccola architettura rappresenta la presenza storica nell’area, come appunto, un monumento.
Infatti nel progetto è stata isolata tutta intorno come richiesto dalla Soprintendenza.
Ogni cambiamento di un “fatto urbano” presuppone un salto qualitativo.
L’area, interessata, è dedicata allo sport e tempo libero sempre vissuta dalla gran parte della cittadinanza come area di spensieratezza, gioia e libertà.
Questa area, polmone verde, presenta varie specie arboree tra cui i numerosi alti tigli e delle aree a verde.
Il palazzetto storico esistente è collegato ad un fabbricato più recente, in parte fatiscente, e a sua volta poco distante dall’altro edificio adibito al pattinaggio, il quale pur essendo poco gradevole esternamente è almeno questo tutto a norma per essere, come infatti lo è, usato da tanti sportivi di diverse fasce di età.
Si è preferito estraniare il nuovo progetto dal contesto edificato, svincolandosi dall’esistente e creando dei volumi nuovi tout-court. Tendenza, questa, ormai si può dire di moda.
Per semplificare e dare una chiave di lettura, la planimetria del progetto sembra uno dei tanti progetti presenti sui social dove si rincorre un linguaggio che è ormai internazionale.
Si è preferito creare volumi ponendoli disinvoltamente nell’area creando delle aree sportive anche sul tetto di copertura. La presenza di un campetto esterno e di un altro che sarà sotto una grande piastra di cemento ed aperta sui suoi lati.
Quello che si riscontra ad una prima visione da ciò che è stato pubblicato sui social, è che i progettisti abbiano mirato principalmente a risolvere il progetto esclusivamente da un punto di vista funzionale e dimensionale distribuendo i volumi, come detto, al centro dell’area e isolando, giustamente, la testimonianza dello storico consolidato.
Ipoteticamente, per eliminare qualsiasi polemica, sarebbe stato meglio attuare un concept a minimo impatto basando tutto sulla ristrutturazione dell’esistente e pochi elementi di raccordo intorno.
Infatti, studiando l’area nei suoi assi, architetture e storia del luogo, sarebbe stato urbanisticamente e architettonicamente anche valido ricostruire il palazzetto (circa nella stessa area dell’esistente) ed un ulteriore volume alle spalle del palazzetto di pattinaggio dove è presente un’area a prato.
Questa ipotesi di intervento avrebbe obbligato gli architetti ad un confronto dialettico espressivo più contestualizzato da un punto di vista linguistico, architettonicamente parlando, ed urbanistico (compositivo, di assi e di salvaguardia) ed ambientale in quanto avrebbe probabilmente salvato la maggior parte degli alberi esistenti.
Infine, ma non meno importante, è la socialità che l’area in sé produce alla collettività: è bello passare per l’area dell’ex-fiera e vedere ragazzi o scuole di danza riempire il campetto esistente all’ombra degli alti alberi.
Vero è che nel nuovo progetto sarà comunque previsto uno spazio analogo dove incontrarsi a fare sport liberamente.
Oggi la simbiosi tra urbanistica, architettura e verde dovrebbe essere ciò che guida gli interventi in ambito urbano e non solo, alla ricerca di un rapporto tra natura e architettura che non sia conflittuale. La ricaduta non è solo di salvaguardia e di crescita dell’ecosistema, ma anche di natura sociale. Ricordiamoci che una delle sei missioni del PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – è dedicata proprio alla transizione ecologica e alla “rivoluzione verde”.
Inoltre bisogna anche ricordare che i meccanismi del PNRR obbligano a decisioni veloci che portano a scelte che, come in questo caso, forse andrebbero meditate più a lungo. Tempo che purtroppo non c’è, pena la perdita di una parte cospicua degli investimenti.
Ma detto tutto ciò e tornando alla valenza di un progetto pubblico nel tessuto urbano si deve altresì ricordare che la città nella sua vastità e nella sua bellezza è una creazione nata da numerosi e diversi momenti di formazione e l’unità di questi momenti è l’unità urbana nel suo complesso. La città viene vista come una grande opera, rilevabile nella forma e nello spazio, ma questa opera può essere colta attraverso i suoi brani, i suoi momenti diversi. L’unità di queste parti è data fondamentalmente dalla storia, dalla memoria che la città ha di se stessa.
Prima avevo accennato anche all’importanza dell’area e la sua capacità di accompagnarsi ad un insieme di elementi determinati che hanno funzionato come nuclei di aggregazione. L’unione di questi elementi (primari) con le aree in termini di localizzazione e di costruzione, di permanenze di piano e di permanenze di edifici, di fatti naturali o di fatti costruiti, costituisce un insieme che è la struttura fisica della città.
In base a queste riflessioni generali, ma sapendo che il progetto stesso è stato approvato, e soprattutto completamente finanziato, e pensando alla valenza che il progetto suppone di dare come contributo funzionale più che estetico alla città, credo sia una scommessa, da poter fare, credere ad un nuovo impianto che darà un nuovo futuro alla socialità dei ragazzi della città, un nuovo stimolo all’usufruire di ambienti sportivi nuovi e probabilmente meglio organizzati.
La città cresce, si trasforma nel tempo e dialoga certamente con il passato ma cerca anche di anticipare il futuro e il sacrificio del taglio degli attuali alberi, anche se doloroso, con la sicurezza di un nuovo progetto del verde può portare ad una soluzione unitaria per il tessuto urbano del quartiere ma anche di giovamento al benessere della città nel suo insieme.
Credo che (quasi) nessun architetto sia contento di sacrificare una parte interessante di verde pubblico e soprattutto di tagliare degli alberi, ma a volte bisogna guardare ad un interesse futuro per chi frequenta gli spazi sportivi e per la città in generale.
La risposta che i progettisti e la cittadinanza insieme devono, alla fine, ricercare in questo allargamento di orizzonti è vedere se il sacrificio o meno dell’esistente è a favore o contro la città stessa.