Proviamo a chiederci se e come si possa parlare di ”contaminazione in politica” e interroghiamoci su cosa essa possa comportare.
E’ idea diffusa che la politica si ponga come arte della mediazione che spesso si traduce in esercizio del compromesso che frequentemente ormai diventa pratica della contaminazione.
Infatti vediamo tranquillamente politici passare da un partito all’altro, partiti passare da uno schieramento all’altro, alleanze farsi e disfarsi in poco tempo, idee e programmi contaminarsi con estrema facilità.
Ne scaturisce una grande confusione.
Oserei parlare di ”contaminazione delle irresponsabilità”.
Ma qui nasce una domanda: è lecito da parte nostra sollevare critiche superficiali, umorali, viscerali a questa o quella parte politica, a questo o quel rappresentante politico?
Io risponderei di no, pur dovendo ammettere che anche a me capita, un po’ come a tutti, di farlo e non di rado.
Se, come in seguito vedremo, pretendiamo dai politici un forte spirito critico, non possiamo non sentirci caricati a nostra volta di un tale dovere.
Non è giusto prendersela con questo o quello per una sorta di antipatia o di insoddisfazione o di presa di posizione pregiudiziale.
Bisognerebbe piuttosto indicare con precisione quali fatti reali andiamo a contestare, quali errori oggettivi vogliamo denunciare, quali programmi chiari e pratiche reali chiediamo agli uni e agli altri.
Tutto questo lo facciamo poco o nulla, limitandoci spesso a sfoghi del momento se non addirittura a chiacchiere da piazza.
Ciò non toglie che i nostri politici, oggi probabilmente più di sempre, prestino il fianco a severe critiche di limitata competenza, scarso senso di responsabilità, invisibile spirito autocritico.
E’ un continuo battere, da tutte le parti, sui meriti propri, troppo spesso millantati, e sui demeriti degli altri, questi magari più tangibili. Parole e idee si rimescolano tra loro, appunto in una ”confusa contaminazione”.
L’arte della politica dovrebbe essere ben altra cosa. Il bravo politico dovrebbe lavorare per un reale miglioramento delle cose, dovrebbe governare per il bene di tutti e alla ricerca di un sempre maggiore livello di giustizia sociale.
C’è chi lo fa veramente?
Quanti antepongono gli interessi della gente, che magari li ha votati, a quelli propri e del proprio partito?
Lo fanno quelli di destra? Lo fanno quelli di sinistra?
Norberto Bobbio (possiamo rileggere ”Destra e sinistra” Donzelli) dà massima importanza alla costante tendenza al dubbio e all’autocritica, all’attenzione che ogni conclusione raggiunta possa reggere ad una nuova valida argomentazione dell’avversario, con la capacità di riconoscere il proprio torto, quando necessario. Secondo lui il vero politico non deve cercare la persuasione della massa facendo calare dall’alto della sua cultura, quando c’è, parole e programmi univoci, ma deve essere capace di studiare, cercare, argomentare seguendo l’imperativo etico del dubbio e dell’ascolto.
Quanti dei nostri politici lo fanno?
Benedetto Croce (sono ancora interessanti i suoi ”Discorsi parlamentari” Il Mulino) usava una formula eccellente: ”la politica degli impolitici”. Vale a dire la politica di chi non ne fa un mestiere per ottenere potere e per curare i propri interessi
Ne offre una convincente spiegazione Massimo Salvadori (andiamo a rivedere ”Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà” Feltrinelli): ”Tali erano i confini (sta riferendosi all’idea politica di Norberto Bobbio) che oppongono la libertà e la democrazia alla dittatura e ai dispotismi, la tolleranza all’intolleranza, la convivenza civile alla violenza, l’etica privata e pubblica alle corruzioni dei singoli e dei governanti, i diritti dei governati ai soprusi del potere, l’eguaglianza fra gli uomini all’autoritarismo e alla prevaricazione”.
Quanti dei nostri politici prestano attenzione a tutto questo e ne fanno una loro virtù?
Naturalmente non possiamo non fare i conti con lo scarto che inevitabilmente si pone tra le buone intenzioni e il bisogno di trovare soluzioni pratiche. Un’azione bisogna realizzarla, un governo occorre esercitarlo. Ma quella virtù dovrebbe essere irrinunciabile. Si tratterebbe alla fine di conservare lo spirito del ”buon padre di famiglia”.
Ora, se i politici difettano di questa virtù, cosa possiamo fare?
Certamente la risposta non sta nell’accettazione passiva o nello sfogo consegnato alle parole del momento.
E neppure la soluzione può essere affidata semplicemente all’esercizio del voto una tantum. Un voto che appare sempre più di protesta, di pancia, di insofferenza. Una insoddisfazione che oltretutto sta indebolendo sempre più anche la fiducia nel voto stesso, con un tasso di astensione in continuo aumento.
Ci ripetiamo che questo nostro sistema, anche se pieno di difetti, rimane la forma di governo comunque preferibile. Ma questo non può impedire di cambiare le regole ogni qualvolta sia necessario. E regole da cambiare ce ne sono tante. Occorrono la volontà e il coraggio di farlo.
Poteva, per fare un esempio, essere uno strumento efficacemente democratico quello dei ”consigli di quartiere”. Però non lo si è voluto mai veramente far funzionare, riducendone gli esiti a ben poca cosa e soprattutto vanificandone le reali possibilità di incisione sulla politica cittadina.
Bisogna riflettere su questo sistema dei partiti che spesso fa parlare di partitocrazia.
Un sistema partitocratico è veramente una sana forma di democrazia?
Può essere utile leggere il ”Manifesto per la soppressione dei partiti” di Simone Weil (ultima edizione italiana Castelvecchi 2020) che, scritto nel 1950, porta ancora oggi a interrogarci sul significato di ”prendere partito”.
Ed è anche utile rileggere il testo pubblicato da Piero Calamandrei in ”Critica sociale” il 5 ottobre 1956 (oggi rintracciabile nel volume di Chiare Lettere ”Lo stato siamo noi”) che contiene fra le altre la seguente affermazione: ” Uno degli aspetti psicologici più inquietanti della ‘crisi del parlamentarismo’ è costituito, secondo me, da quel fenomeno che si potrebbe chiamare il ‘professionismo politico’ ”.
E poi ascoltiamo la denuncia di Enrico Berlinguer che, nel corso di un’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari nel luglio del 1981, affermava: ”I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più dispaati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune.”
Eravamo nel 1981. Successivamente abbiamo assistito alle gravi vicende che hanno portato alla caduta della prima repubblica per poi passare all’epoca berlusconiana e allo stato attuale di una politica sempre più confusa e lontana da aspettative di sana moralità.
La democrazia può essere tale solo in quanto forma di giustizia sociale, solo se rispetto a tutti inclusiva e non esclusiva. Oggi, però, stiamo assistendo ad una sempre maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi mentre aumentano i livelli di povertà. E allora siamo veramente convinti che questo sia un sistema democratico o almeno che sia un sistema democratico funzionante?
Pensiamo veramente che il solo esercizio del voto sia sufficiente a garantirlo?
Il volume di Van Reybrouck ”Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico” (Feltrinelli 2015) porta in tal senso diverse provocazioni e vari suggerimenti.
Comunque, attraverso il voto, abbiamo veramente la possibilità di scegliere i migliori, quelli che più meritano per la preparazione acquisita e per la volontà di operare in modo positivo?
E ancora, quelli che vengono scelti, anche se provvisti delle migliori intenzioni, hanno veramente la possibilità di perseguire i giusti obiettivi? Oppure devono sacrificarli alle esigenze di capi che a loro volta sono condizionati da altri capi?
Ecco il gioco delle contaminazioni con tutti i suoi limiti e pericoli.
Ecco il bisogno di sviluppare una seria riflessione su quanto non funziona.
Naturalmente i libri che affrontano questi problemi sono tanti. Mi limiterei a due usciti quest’anno: ”Democrazia e anarchia. Il potere nella polis” (Donatella Di Cesare-Einaudi) e ”Guarire la democrazia. Per un nuovo paradigma politico ed economico” (Leonardo Becchetti-Minimun Fax).
Uno più teorico, l’altro più pragmatico. Teoria e pratica che devono incrociarsi in una sintesi capace di andare oltre la chiacchiera per produrre un’azione concreta.
Allo stato attuale delle cose, a me sembra, non possiamo aspettarci molto da questo sistema dei partiti e appare sempre più necessario sviluppare un’alternativa affidata a movimenti e associazioni. Movimenti soprattutto di giovani capaci di riappropriarsi del ruolo politico. Associazioni di volontari capaci di sviluppare il mestiere di cittadino.
Il potere dovrebbe sposarsi alla responsabilità. Tanto potere dovrebbe implicare tanta responsabilità. Ed ecco arrivare come monito l’affermazione di Bertrand Russell: ”non c’è potere senza abuso” (abuso per conquistarlo e abuso per conservarlo).
E allora spetterebbe ad ognuno il compito di sorvegliare su come i politici fanno uso del loro potere e chiedere che le regole sbagliate vadano cambiate.
Ognuno di noi deve sentire il bisogno di dimostrare che si può fare diversamente e che si può operare per un più alto livello di giustizia sociale.
Ascoltiamo le parole con cui l’ammirevole Pepe Mujica risponde a chi gli chiede se i leader politici siano all’altezza delle sfide del ventunesimo secolo: ”No. Penso che esista un abisso tra le conclusioni della scienza contemporanea e le scelte politiche, che non cambiano nemmeno di fronte alle evidenze che la scienza mostra da tempo.” E Noam Chomsky subito dopo aggiunge: ”Nemmeno io credo che i leader politici siano all’altezza, non quelli che ci sono adesso.
Penso che costoro diano ascolto alle forze economiche della società e a nessun altro. Prendiamo un membro qualsiasi del Congresso degli Stati Uniti: costui magari comprende gli allarmi lanciati dal mondo scientifico, ma continuerà a dar retta alle grosse aziende che hanno finanziato la sua campagna elettorale.”
Mi piace ricordare che Pepe Mujica come presidente dell’Uruguay riceveva un appannaggio di circa 8.300,00 euro al mese, ma ne devolveva la gran parte a persone bisognose e ad organizzazioni non governative operanti nel sociale; tratteneva per sé solo 800,00 euro sostenendo che potevano bastargli visto che molti suoi connazionali dovevano vivere con meno (chissà cosa ne pensano i nostri amministratori?!).
Tutto questo è utopia? E’ utopico desiderare un sistema in cui la ricchezza sia equamente distribuita? E’ utopico desiderare un sistema finalmente capace di rinunciare alle armi e alle guerre?
Una risposta, certamente filosofica ma anche frutto di esperienze concrete e di lucide riflessioni, ancora una volta ci viene fornita da Simone Weil che, cosciente dei limiti propri dell’azione umana e delle difficoltà personali incontrate, scrive: ”Occorre tentare di raffigurarsi chiaramente la libertà perfetta, non nella speranza di raggiungerla, ma nella speranza di raggiungere una libertà meno imperfetta di quella della nostra condizione attuale; perché ciò che è migliore è concepibile solo mediante ciò che è perfetto. Ci si può solo dirigere verso un ideale. L’ideale è altrettanto irrealizzabile del sogno, ma, a differenza del sogno, è in rapporto con la realtà; permette, a titolo di limite, di classificare situazioni reali o realizzabili secondo un ordine che va dal più basso al
più alto valore”.
L’ideale rimane il bene comune, una società più equa, capace di limitare la differenza tra ricchi e poveri e di garantire a tutti un livello di vita dignitoso.
E’ un ideale che ognuno di noi dovrebbe nutrire non solo con il pensiero e le parole ma anche con tutti gli atti possibili, magari piccoli ma pur sempre significativi.
Spesso queste posizioni vengono tacciate di moralismo, ma questo può essere solo un modo per smarcarsi dal proprio impegno. La facile rinuncia a lavorare per un percorso che dall’utopia porti all’eutopia, dal sogno di un posto inesistente all’ideale di un posto buono e possibile.
Desidero concludere con le parole dello scrittore argentino Ernesto Sabato: ”Credo che la libertà ci sia stata destinata per compiere una missione nella vita; e senza libertà nulla vale la pena…credo che la libertà a nostra disposizione sia maggiore di quella che abbiamo il coraggio di vivere”.
E’ un monito che vale per tutti noi. Anche se non siamo portati agli eroismi e alle grandi missioni, non possiamo rinunciare alla nostra libertà e dobbiamo trovare il coraggio di viverla con impegno e coerenza.