Il sottotitolo è apposto da chi scrive questo breve testo per riassumere il senso di profonda speranza che la lettura del romanzo “LE FIGLIE DELL’ORSA” di Paolo Venti lascia per il lettore che vuole farsi sorprendere in bilico tra realtà e fantasia, tra l’oggi e l’alba dell’umanità.
Non volendo scomodare Jonathan Swift o Alessandro Manzoni, la storia della letteratura ci racconta che molto spesso anche famosi autori sono ricorsi alla finzione del ritrovamento di un “documento”, più o meno storico, per avviare racconti importanti e “fantastici”, capaci comunque di contribuire alla comprensione dell’attualità del mondo e dell’umanità che lo abita oltre la storia.
Così fa Paolo Venti elaborando un vero e proprio atto d’amore per la sua terra, per le sue origini, costruendo dal nulla un mythos dove i personaggi non sono eroi immortali, ma persone comuni, i cui tratti sono riconoscibili, oltre il tempo, in tante comunità odierne. Sono rintracciabili temi come il simbolismo del rapporto maschile-femminile, l’alleanza con la Natura, l’arroganza violenta di chi pretende di avere comunque e sempre ragione, l’incomprensione tra generazioni dove i padri spesso sono disarmati verso la disperazione dei figli, il bisogno di “sacro” che soprattutto i più fragili agiscono per convivere con ciò che fa loro paura, …
Nessuna intenzione di spoilerare, come oggi si usa dire, e togliere così il gusto della scoperta ai nuovi lettori, ma permettete alcune riflessioni.
La relazione scientifica di una recente spedizione speleo-paleontologica riferisce di un’indagine sullo scheletro di un giovane uomo delle caverne ucciso probabilmente da un orso per sfondamento del cranio, l’esplorazione di nuove stanze di una grotta nelle vicinanze di Pradis da parte di un team di attrezzati e moderni speleologi, tra cui una giovane donna, che si avventurano, oltre ogni prudenza, nel cuore della montagna e, senza via di scampo, si trovano al cospetto di un’orsa, sono incipit e conclusione del romanzo. Tra di essi un denominatore comune: la capacità degli orsi di fiutare l’odore della vita nuova, nel suo essere speranza di futuro, e di rispettarla.
Tra i due episodi della contemporaneità, l’autore ci porta nel lontano XIV secolo, sempre nei pressi della grotta, dove è in atto un’indagine condotta a tre voci da Pietro, Francesco e Antonio, rappresentanti del buon senso paesano, su strane morti di inermi abitanti di Pradis.
La ricerca dei colpevoli è condita di vari tentativi di depistaggio da parte dei sospetti colpevoli che appartengono alla contrapposta comunità di Komereth, di origine celtica, che tentano di indicare come responsabili dei delitti gli orsi di quelle montagne.
Le due comunità rappresentano due modi di rapportarsi alla Natura e due diversi registri linguistici nel confrontarsi con cose e persone.
Da un lato la comunità di Pradis che, guidata dai saggi del paese, riflette sulla necessità di prendere decisioni condivise e democratiche e di rispettare un’antichissima alleanza tra umani e plantigradi e dall’altra una comunità gerarchica e integralista, cristallizzata sulla nostalgica e fanatica supremazia dell’uomo-eroe che si impone signore del proprio destino a tutti i costi.