Fawad (e Raufi) è afghano. Ha percorso clandestinamente la rotta balcanica da Kabul all’Italia. A Pordenone è arrivato nel 2016. Ha pubblicato un diario di quella esperienza (Dall’Hindu Kush alle Alpi. Viaggio di un giovane afghano verso la libertà (Zel Edizioni, 2018).
In agosto del 2021, pochi giorni prima del ritorno dei talebani in Afghanistan, è uscito il suo secondo libro autobiografico: Ultimi respiri a Kabul. Tra la neve bianca e i lupi neri (Zel Edizioni). Con faticosa attenzione, correggendo e rivedendo ogni ricordo e ogni pensiero ha ripercorso venticinque anni vissuti sempre in guerra. Come profugo senza alcun diritto ha trascorso i primi dieci anni nelle tendopoli di Peshawar in Pakistan.
Poi è sopravvissuto in una Kabul martoriata dalle mine antiuomo, dagli attentati, dalla corruzione e da una forma di tradizione che rendeva la vita immodificabile. Anche l’immaginario era prigioniero, intrappolato in un presente cupo sempre identico a se stesso.
Laureatosi ha iniziato ad insegnare Storia e Letteratura in un Liceo. Dopo l’ennesimo attentato in cui hanno perso la vita oltre quattrocento persone è partito, cercando un modo e un luogo per iniziare a vivere dando un senso alla propria vita.
Quando l’ho incontrato nel 2016 non mi ha quasi guardato negli occhi (per rispetto, mi dice) e si è irrigidito mentre mi avvicinavo tendendogli la mano. Oggi è capace di puntare lo sguardo verso le persone. Scrive stupendosi del desiderio, della forma dei sogni, della ricchezza delle relazioni e della poesia.
Fawad inizia ogni conversazione con dei versi poetici o con un messaggio positivo di semplice bellezza, così vuole la sua cultura persiana. Poi instaura un dialogo trovando le parole che salvano, che traducono la fragilità che sempre c’è in ciascuno di noi, in responsabilità e speranza.
Come autore si firma aggiungendo una e/congiunzione tra il suo nome Fawad e il cognome Raufi, cosi da tenere sempre presente anche la parte di lui che forse è rimasta a Kabul, che forse non parla italiano, inglese, tedesco, come sa fare perfettamente Fawad, ma continua a pensare in farsi, la lingua materna persiana.
In quella lingua, utilizzando una grafia danzante, scrive le dediche dei suoi libri. Imitando Fawad ho pensato di utilizzare una poesia di Paul Celan per recensire questo suo libro, il perché penso sia esplicito
Quanta fatica per proferire una parola
a chi è corrotto,
e non sa distinguere un sogno
dai robusti rami del pero.
Quanta fatica per una parola
su questa strada polverosa,
nemica delle mie scarpe
più che il sole per la neve
e l’acqua per il deserto.
Quanta fatica per una parola
a mio padre e a mia madre,
quanta fatica per una parola
a tutti quelli che vedono me che invecchio
in un trafitto autunno.
Quanta fatica per una parola
in questi giorni che sono smemorati.
Quanta fatica per una parola.
Fawad ha osato. Guardando in modo radicale la realtà negli occhi ha saputo cogliere il senso profondo della propria vita, trovandolo nelle relazioni interpersonali che ha cercato e coltivato, sottolineando l’importanza delle risonanze emozionali, culturali ed esistenziali conseguenti.
Leggere Ultimi respiri a Kabul significa essere chiamati, a nostra volta, a cogliere l’importanza delle parole che salvano, degli sguardi, dei silenzi, della musica, dei sorrisi e dei gesti del corpo, sia quelli agiti che quelli mancati (questi ultimi sono di certo fondamentali).
Significa uscire dalla comoda indifferenza, rinnegare pregiudizi, osare cambiamenti di pensiero. Questo è un libro necessario.