“Sono un pittore prima che uno scrittore”. E’ una frase di Giuseppe Zigaina che indica una precisa collocazione della sua opera di scrittore rispetto a quella che egli riteneva la sua attività principale di artista visivo. Questo è il primo elemento importante che forse ha determinato un freno nella valutazione della sua opera letteraria, un freno che in qualche modo sembra passare anche al pubblico dei lettori e dei critici che forse si sono occupati meno del dovuto delle sue specifiche caratteristiche di scrittore. Un secondo elemento, a mio avviso, che ha inevitabilmente distratto rispetto ad una valutazione specifica e autonoma del suo lavoro letterario è la (per altri versi felicissima e fertilissima) relazione con Pasolini. Fra le prime opere scrittorie che compaiono in un elenco della produzione di Zigaina non a caso troviamo Pasolini e la morte: Un’idea dell’eternità (1987), La morte di Pasolini: La fine di una profezia (1999), cioè testi direttamente connessi con la tragica fine del grande poeta e regista friulano della quale Zigaina, come è noto, propose un’interpretazione tanto interessante quanto controversa. Vi è un terzo elemento, credo, che ha tenuto in ombra lo Zigaina scrittore, ovvero quella difficile lettura “psicoanalitica” e “filosofica” dell’arte e della vita, quasi mistica, quel linguaggio evocativo e riflessivo che rende oggettivamente difficili le sue pagine, o almeno alcune di esse.
Singolare simmetria a pensarci bene, quella che lega Pasolini a Zigaina, se del primo l’opera pittorica, che raggiunse peraltro risultati ragguardevoli, è vista comunque come secondaria e “dilettantesca”, del secondo l’opera pittorica di altissimo livello finì per gettare ombra sulle pagine scritte. L’amicizia fra i due fece sì che le reciproche specificità si sostenessero e alimentassero a vicenda, con matematici parallelismi: già nel 1949 Zigaina elaborò tredici disegni per la raccolta Dov’è la mia patria? di Pasolini il quale nello stesso anno scrisse una presentazione critica per la prima mostra veneziana dell’amico.
Varrà la pena allora, con una lettura onesta e lontana da preconcetti o pregiudizi, tentare di percorrere un testo come Verso la laguna, in fondo l’unico testo di scrittura narrativa autonoma, affrontandolo come opera letteraria, certo in dialogo con gli interessi artistici ma in qualche modo da essi indipendente, da valutare per i suoi meriti letterari.
Si tratta di una raccolta di quattordici racconti lunghi, pubblicati nel 1995 per Marsilio e condotti sui crinali che stavano più a cuore a Zigaina: la pittura, il disegno da un lato, il paesaggio e la natura del Friuli dall’altro, l’esperienza personale e umana come legante. Che sono poi la stessa cosa visto come questi elementi innervino in modo indistricabile la figura di Zigaina. Ma intendo qualcosa di più che una generica convergenza: dalla lettura di questi racconti si comprende, riga dopo riga, come la vita si comprenda attraverso il gesto pittorico, questo si nutra del paesaggio che è specchio del nostro vivere, e così a procedere in entrambe le direzioni. Mettiamo alla prova questo gioco di intersezioni, dunque, come chiave di lettura di questi racconti.
L’arte e la vita, si diceva. L’incipit è fulminante in tal senso: “Si inizia sempre così”. Cosa? La vita? Il racconto? No, la lastra, la lastra su cui si incideranno le tracce che porteranno alla xilografia finale. Incidere, come dipingere, scolpire, è metafora illuminante della vita. “Il miracolo avviene”. La pittura o l’incisione diventano lo spazio vitale in cui l’artista si muove “Sono uno gnomo in uno sterminato paesaggio di fiaba” (8). La scrittura è di una densità incredibile, ci porta nel cuore del fare artistico con frasi epigrafiche e folgoranti che si susseguono rapidissime: “segno dopo segno e sotto il bulino emergono crisalidi, filamenti, peluria, paesaggio, cervello“, “Tutto è grande e piccolo nello stesso tempo“. La collina vista dall’interno, è una caverna, una grotta carsica immensa”, “Il cervello con le sue circonlocuzioni è il gheriglio di una noce, è la curvatura delle colline” (8-9).
Ecco, già alla terza pagina una fitta serie di preziose indicazioni: dipingere, fare arte è un cortocircuito fra il grande e il piccolo, è la capacità di andare oltre (o sotto) la propria misura umana consueta, di accostare cose lontane. Tre pagine per raccontare il percorso inevitabile per l’artista contemporaneo dalla rappresentazione all’astrattismo (“paesaggi stranianti che possono sovrapporsi in dissolvenza”). Ma qui ci preme rilevare la forza della scrittura, il vigore di uno stile: “La distanza fra la punta levigata e la pupilla non deve più esistere” è un esempio fra i mille di tale incisività delle parole.
Dipingere e scrivere sono due modi per affondare di più nella vita; è quella dimensione simbolica e psicanalitica che da molte parti è stata rilevata nella scrittura di Zigaina e che la rendono così intrigante e densa. “Incidere una lastra dev’essere come scavare nella memoria, per strati: si trovano dei fili sparsi qua e là come terminali abbandonati, come radici affioranti di epoche remote” (14). Si legga parallelamente un racconto come Un viaggio nell’al di là, una semplice discesa nella cantina buia dei nonni da parte del bambino Zigaina che diventa discesa nelle proprie viscere, nel proprio passato oscuro: “Non conoscevo quel mondo. Sapevo soltanto che custodiva i ‘vestiti dei morti‘”. E non sarà un caso che di quel mondo buio il bambino si soffermi a decifrare le tracce di un dipinto, una fotografia sfocata; decifrare macchie, linee interrotte e sbiadite è la vocazione originaria a decifrare la trama del mondo nelle sue arcane oscurità attraverso le immagini. Lo stesso vale per un racconto come Aurora in cui una solitaria passeggiata infantile fra i campi diventa una discesa nel buio: “Senza rifletterci su penetrai in quel varco dapprima facendo i due gradini che davano accesso al portico, e poi, benché non sapessi dove andassero a finire – gli altri….Così, di gradino in gradino, tenendomi tutto sbilanciato all’indietro per non scivolare, mi lasciai avvolgere dall’oscurità” (46). Curiosamente anche questo racconto, per altre vie, giunge alla scoperta dell’arte: “Da quando sono rimasta sola, questi quadri sono l’unico filo che mi lega alla vita… Quei quadri sono gli autoritratti che dipingeva guardandosi allo specchio (51)” ricorda nella scena conclusiva un’anziana signora parlando di sua figlia.
Ma uno scrittore si misura anche nella narrazione, sembra quasi banale ricordarlo: eppure serve perché non si confonda lo statuto del racconto con quello del saggio. E Zigaina non dimentica nemmeno per un istante questa necessità: l’emozione artistica è come “un sogno provocato dalla narcosi“, ma immediato viene l’esempio, con precise movenze narrative “la volta che agli Uffizi mi sono trovato improvvisamente davanti a un quadro misterioso. È stato un regresso fulmineo e inatteso“.
È ovvio che tale andamento narrativo si coglie più facilmente e distesamente nei racconti di esperienze concrete come Barbana, La febbre, Il cappotto. In questi casi, quasi per una bilanciatura simmetrica, la scrittura di Zigaina si fa acutissima nell’osservazione dei dettagli, tesa fino allo spasmo. Parlando della madre egli scrive “Ma gli occhi erano tutti una luce. Grandi e castani, trasformavano il suo volto in espressioni di gioia o di tristezza con bagliori improvvisi. Aveva la fronte alta e solcata da due rughe (di cui soltanto conoscevo il percorso)…(35)”. Le rughe della madre sono come i tratti del pennello o del bulino, le cose si conoscono e si interiorizzano nel pittore Zigaina con una gestualità artistica perché appunto vita e pittura si travasano una nell’altra senza sosta.
Ma su un terzo terreno vorrei cercare lo scrittore, quello dello stile, ed è ancora una volta più evidente la sua bravura nei punti in cui scrittura e arte pittorica sono indistricabili. Alcuni dei passaggi più belli e raffinati nell’elaborazione testuale sono i paesaggi: il paesaggio della laguna di Grado, per esempio, verso Barbana: “oltre l’ampia curva del fiume non ‘era più che una luce irreale da cui emergeva con la vaporosità di una nube, lontano ma non proprio all’orizzonte, una folta vegetazione” (32), “la pianura, a poppa, si appiattiva in stesure di verdi umidi e preziosi, velati qua e là dal fumo grigio delle case o di qualche isolata ciminiera… Il sole intanto, … traspariva come un’ostia da un velo di vapore” (33) oppure ancora “l‘isola di Sant’Andrea, già anch’essa un po’ offuscata, si ispessiva in un indaco intenso e quasi viola” (36). Passi in cui preziosità stilistica e sensibilità pittorica si sostengono ed esaltano a vicenda.
E a costo di abbondare non posso dimenticare una sera come quella descritta in Betelgeuse “Allora, mentre la scia dei rumori finiva per spegnersi dietro le stazioni deserte, i pali di acacia dei vigneti incominciavano ad allungare le ombre con un solenne moto di meridiane … Era il momento in cui, nelle giornate di luglio, i colori riprendevano la loro giusta tonalità, come se una mano invisibile ripulisse una per una le cose del mondo” (55).
Il racconto ha un finale poeticissimo e un po’ surreale che ricorda Fellini, ma qui ci interessa la bellezza della scrittura: non a caso, ripeto, in coincidenza con elementi pittorici, ombre, tonalità, colori.
Altre volte domina in qualche racconto l’interesse per una narrazione diversa, meno descrittiva, meno pittorica, enigmatica anche se in modo diverso: penso a un racconto come il Cappotto, di movenze che a tratti ricordano Kafka o Gogol, e non solo per il titolo, segno che la scrittura sa e riesce a trovare una sua autonomia, a imporsi di per sé, affiancandosi alle voci più intense della modernità. Oppure si legga Scirocco dove Zigaina dispiega doti di grande narratore di avventure, sulle scie di Melville o di Hemingway.
La scrittura dunque è il terreno in cui l’amalgama di emozioni, quel triangolo di vita-arte-paesaggio si fanno consapevolezza, si distendono e diventano di volta in volta ragionamento, narrazione, esperienza. “Talvolta mi sorprendo a riflettere su ciò che succede nel mio cervello mentre incido una lastra” è un chiaro esempio in tal senso, come una frase di poco successiva: “Sprofondare nell’immagine. Riuscire a spiegare questa esperienza nella sua vera realtà… sarebbe come far assistere se stessi, svegli e pensanti a un proprio sogno” (12-13).
Ecco allora che scrittura e pittura rientrano nella medesima linea di scavo e di ricerca: poche volte come in queste pagine linee e sillabe, colori e racconti si illuminano a vicenda, dialogano in simbiosi straordinaria.
Due chicche ancora, per chiudere queste che al più si propone come una serie di appunti di lettura. C’è un racconto, Medea, un’uscita in barca nella laguna di Barbana, il racconto di un piccolo incidente di navigazione, ma quel che conta con due ospiti di eccezione. Sono Pasolini e la Callas: non se ne fa il nome mai, per una sorta di antonomasia ben riuscita che mantiene un incanto e una sospensione perfetti. Finché l’amico passeggero “Cominciò a sorridere e a parlare. Stiracchiando le braccia disse: ‘Qui girerò Medea‘”. E poco dopo, con lo stesso incanto ecco la descrizione della scoperta: “Nessuna traccia di vita. Era proprio il luogo senza tempo che egli cercava. Mitico e realistico. Il luogo del Centauro” (129).
L’altra chicca riguarda la sensibilità linguistica che è un’altra efficace cartina al tornasole per la scrittura e lo scrittore, per qualsiasi scrittore. Ancora da un’uscita in laguna nel racconto Cassiopea: “Non si parla quasi mai in laguna. C’è qualcosa nell’aria prima di sera che induce semmai all’ascolto, anche perché, incredibilmente, il rollio della barca ti riporta indietro nel tempo. Ma questo regresso (che è anche un ascolto interiore) è praticamente indescrivibile. È un nulla … si tratta di nebulosi ricordi dei primi giorni di vita.. la mia ad esempio è una barca di legno… ha un fasciame di rovere di montagna…fasciame, questo coagulo di senso, questa parola che amo, sta per essere cancellata per sempre… con un processo che mi ricorda il cerimoniale di alcuni superstiti abitanti di un’isola del Pacifico che cancellano un vocabolo alla loro lingua per ognuno di loro che muore“.
Le parole che muoiono…Che immagine meravigliosa! Basterebbe anche solo questa per consigliare a tutti di rileggere i racconti di Giuseppe Zigaina, pittore certo, ma anche scrittore di qualità.
Indice
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