Il tatuaggio tra integrazione, emarginazione e contestazione
Organizzare in maniera sistematica delle riflessioni sul tatuaggio è questione assai complessa in quanto coinvolge discipline numerose e diverse ancorché connesse: antropologia, sociologia, semiotica, teoria della comunicazione, e bisognerebbe essere esperti di tutti questi ambiti disciplinari per cimentarsi su una questione che è delicata anche per il fatto di essere (ancora, ma forse non per molto) oggetto di controversia tra fautori e detrattori. Ma ho anche pensato che poteva essere un’occasione – senza dover necessariamente realizzare monumentali sintesi teoriche – per mettere in ordine alcune riflessioni sulla questione, assai intrigante, di messaggi che vengono comunicati utilizzando come canale l’emittente stesso di quei messaggi o, meglio, la superficie del suo corpo, cosa che enfatizza la nota tesi esposta da Mc Luhan nel suo saggio del 1964 Understanding Media: The Extensions of Man[1]: infatti nel caso dei tatuaggi il medium che veicola il messaggio non è un’estensione dell’uomo, ma è l’uomo stesso, la sua pelle, la sua superficie esterna, l’unica cosa che gli altri vedono di lui. Ed è proprio questa, a mio avviso, la prima cosa da notare per comprendere la peculiarità di quel sistema di segni che è il tatuaggio.
esempio di tatuaggio al braccio femminile da BEAUTYDEA, https://www.beautydea.it/tatuaggio-braccio/
Come tutti i segni, anche quelli che vengono tatuati sulla pelle “stanno per qualcosa d’altro”, rimandano a qualcosa che non è presente ma che, in qualche modo e per qualche motivo, si vuole significare a qualcuno. Il fatto però di essere rappresentati sulla pelle di chi intende trasmettere quel significato dà loro una forza comunicativa in più: essi sono rappresentati sulla superficie di colui che li comunica, esprimono le intenzioni maturate nell’interiorità di quell’individuo. E questa interiorità è oscura, imperscrutabile agli altri individui che ricevono la comunicazione. Rappresentando sulla sua pelle i segni che stanno per le sue elaborazioni mentali, l’emittente di quel messaggio mostra nella maniera più immediata ed “originaria” ciò che accade nella sfera del suo mondo simbolico: il tatuaggio è un messaggio posto sulla frontiera fra la realtà fisica, materiale nella quale accadono le vicende della nostra vita e quella meta-fisica im-materiale nella quale stanno le convinzioni, le speranze e le paure della nostra vita interiore che guidano l’altra vita, quella che conduciamo e che intendiamo condurre insieme ai nostri simili. Da questo punto di vista, come tutte le forme di comunicazione, presuppone un’affinità con gli altri e contemporaneamente intende rafforzarla. E la superficie del corpo è supporto privilegiato per l’efficacia di questa comunicazione in quanto – come ogni confine – appartiene contemporaneamente a ciò che sta al di qua ed a ciò che sta al di là del limite. Nel caso della pelle, si tratta del limite fra il sé e l’altro da sé: è il luogo in cui l’individuo non è più solo un’entità biologica, naturale, ma diventa entità culturale. È per questo che va “illustrata”: a lasciarla così com’è sarebbe solo natura, non sarebbe abbastanza umana.
Tatuaggio tradizionale realizzato dall’artista @moon.cheon – https://www.pinterest.it/ pin/469148486188036401/ – particolare
Sono gli animali che continuano a tenere la superficie del loro corpo come la natura l’ha prodotta. Ma gli animali non hanno, nemmeno quando vivono in comunità, quella ricchezza di relazioni, quella capacità di rappresentarle e di rappresentare il mondo naturale e sociale entro il quale vivono che è peculiare degli esseri umani e che, dunque, va sottolineata. E poiché la peculiarità dell’essere umano consiste nell’essere un animale simbolico, cioè si manifesta per mezzo dell’uso dei segni, allora va sottolineata tracciando segni esattamente sulla frontiera che separa il singolo essere umano dal resto della realtà: la pelle diventa il primo e più importante oggetto a subire la trasformazione da elemento naturale a “prodotto culturale” proprio in quanto ci si tracciano sopra dei segni, i quali sono sempre comunicativi di qualcosa per coloro che condividono il codice, il sistema di convenzioni, con cui sono stati prodotti. Rappresentare un cervo sulla parete della caverna nella quale la nostra comunità si ripara dalle intemperie può avere tanti significati: didattici (mostrare quale deve, quando andremo a caccia, essere la nostra preda privilegiata), religiosi (questo è un animale sacro perché rappresenta la forza e tutte le qualità che permettono la sopravvivenza, sicché cibarci delle sue carni ci permette di acquisire le sue qualità e dunque di sopravvivere meglio di quanto non facciano altri cibi) o di altro genere. Rappresentare un cervo sulla propria pelle significa anche il desiderio e la convinzione di essere come il cervo: fiero, forte, regale… E, se il rapporto con gli altri membri della comunità è solido e di reciproca stima, nascerà anche il desiderio che anche loro abbiano sulla pelle il medesimo segno quale “marca d’appartenenza nel gruppo dei pari” come recita il titolo di un interessante studio di Simone Ghiaroni[2] in cui l’autore ricorda un’esperienza fatta coi bambini fra i 3 e i 5 anni di età della scuola dell’infanzia di Gorzano di Maranello (Mo)[3]. Quei bambini avevano l’abitudine di farsi disegni sulla pelle, cosa che, benché disapprovata dalle maestre, appariva loro ovvia, e la spiegazione che uno di loro ne aveva dato era stata: “eh… siamo amici e ci scriviamo” nel senso che coi pennarelli si scrivevano l’uno sulla pelle dell’altro. E inoltre quei bambini disapprovavano in maniera decisa chi rifiutava di avere sul suo corpo gli stessi disegni che avevano i suoi compagni. Ghiaroni vede in questo un’analogia con la civiltà dei Caduveo, ormai quasi estinta, che vive lungo il corso del Rio Nabileque nel Mato Grosso. Negli anni trenta Levi Strauss aveva studiato la loro civiltà ed aveva osservato che essi consideravano “stupido” chi rifiutava di ricevere sulla sua pelle i tatuaggi simbolo dell’appartenenza al gruppo, segno della propria volontà di uscire dalla condizione naturale di animale per entrare in quella culturale di essere umano. Cosa, per altro già notata nella seconda metà del XVIII secolo dal gesuita José Francisco Sanchez Labrador recatosi presso quel popolo con l’intenzione di evangelizzarlo.
http://carolaolivetti.blogspot.com/2020/06/drago-cinese-tattoo-piccolo.html
Naturalmente – e con questo giungiamo ad un passaggio importante nelle nostre osservazioni – Francisco Sanchez Labrador, da gesuita, giudicava negativamente questo desiderio di trasformare il proprio aspetto per mezzo di segni: gli pareva che manifestasse una sorta di disprezzo per l’opera del Creatore che aveva imposto agli umani quell’aspetto. Qui entra in gioco l’atteggiamento del cristianesimo nei confronti del tatuaggio. Infatti il cristianesimo alle sue origini, quando i padri della Chiesa hanno costruito la saldatura fra i contenuti della religione cristiana e quelli della tradizione classica, sono scesi a patti con quella cultura che considerava il tracciare segni sul corpo come un marchio per distinguere coloro che non sono degni di far parte della comunità degli umani se non come accessori, come strumenti, ma non come membri effettivi della comunità. Il ragionamento dell’uomo classico era questo: il corpo umano è bello così com’è (e tutta l’arte classica è testimonianza di questa convinzione), quindi tracciarvi sopra dei segni con inchiostri o per mezzo di cicatrici significa deturparlo ed è cosa che si fa quando si tratta di “marchiare” individui per definirne l’appartenenza a gruppi assolutamente subalterni, quali i delinquenti o gli schiavi, cioè coloro che appartenengono ad un padrone, analogamente ad un capo di bestiame. In realtà, quando il cristianesimo era solo una religione – diffusa, oltretutto, eminentemente fra i ceti subalterni – i cristiani aerano assai fieri della loro “subalternità”, della loro marginalità sociale che consideravano falsa e provvisoria (chi è ultimo su questa terra sarà il primo nel regno dei cieli), sicché usavano tatuarsi simboli cristiani per marcare la loro appartenenza al gruppo degli emarginati-eletti, benché questo, nelle circostanze delle persecuzioni, facesse crescere il rischio che venissero riconosciuti.
esempio di tatuaggio “old school” da BEAUTYDEA, https://www.beautydea.it/tatuaggio-braccio/
Le cose cambiarono quando Costantino imperatore d’Occidente (che nel 313 aveva sottoscritto un editto di tolleranza col quale il cristianesimo veniva accettato insieme alle altre religioni presenti nell’Impero) nel 325, facendo riferimento ad un passo della Bibbia[4] che afferma: «Non vi farete incisioni nella carne per un defunto, né vi farete tatuaggi addosso. Io sono il Signore», stabilì che il tatuaggio fosse vietato.
In realtà molti soldati romani già da secoli utilizzavano il tatuaggio, ma questo era divenuta una pratica usuale quando a militare nelle legioni non erano più cittadini-contadini che andavano a conquistare nuove porzioni di territorio da distribuire a cives romani ma erano cittadini poveri delle città che vivevano facendo i soldati, cioè percependo un soldo per combattere. Questa condizione modificava in qualche modo il loro sistema di valori, anche estetici, rispetto a quelli caratteristici della civiltà romana e, vedendo che le popolazioni celtiche e germaniche usavano tatuarsi segni sul corpo sia per avere un aspetto più minaccioso sia per ricordare imprese particolarmente valorose che avevano compiuto, copiarono quell’usanza.
Combattere per il soldo, però, può anche far diminuire il senso del dovere e indurre alla diserzione, ad una sistemazione meno bellicosa e più comoda presso le popolazioni che Roma voleva conquistare. In questo caso il tatuaggio poteva essere un buon segno di riconoscimento per individuare eventuali disertori (restava quindi, sostanzialmente, un “marchio” per individuare cittadini di serie B). Ma non sempre il militare professionista è così opportunista: spesso prova invece un senso di appartenenza al reparto nel quale combatte ed un attaccamento al suo comandante – ovviamente se il comandante se lo merita – e questo cameratismo, questo senso di appartenenza, unito anche alla conoscenza del fatto che molte comunità celtiche e germaniche utilizzavano il tatuaggio per i motivi che abbiamo visto, avvicinò i legionari romani a quella pratica, inizialmente con la semplice e gloriosa sigla “SPQR” e successivamente col simbolo della legione, divenendo infine anche una sorta di decorazione in quanto era possibile farsi dei tatuaggi che significavano agli altri le proprie imprese belliche.
esempio di tatuaggio al braccio maschile da BEAUTYDEA, https://www.beautydea.it/tatuaggio-braccio/
Quando il cristianesimo divenne la religione dominante, però, il divieto di Costantino riuscì ad imporsi e la pratica del tatuaggio cadde parzialmente in disuso. Non completamente però, visto che nel nel 787 Papa Adriano I sentì l’esigenza, sulla base delle stesse motivazioni di Costantino, di vietarla con un editto. Ed anche successivamente, durante le crociate, molti cristiani utilizzarono il tatuaggio sia, nel caso di un combattente, per esser certo di ricevere una sepoltura cristiana – se il suo corpo veniva trovato fra i caduti di una battaglia in mezzo ai corpi di guerrieri musulmani – sia, nel caso di un pellegrino, per conservare una testimonianza dei luoghi santi che aveva visitato (tradizione che è rimasta nel caso del santuario di Loreto).
Insomma, la tradizione culturale cristiana è veramente erede di quella classica e l’atteggiamento negativo nei confronti dei tatuaggi è stato conservato tanto che, come abbiamo visto, padre José Francisco Sanchez Labrador non vedeva di buon occhio i tatuaggi dei Caduveo.
Però qualcosa, proprio nel periodo in cui visse padre Sanchez, cominciava a cambiare. Ci troviamo nel XVIII secolo, l’occidente europeo (e cristiano) si è accorto dell’esistenza di nuovi continenti e percorre freneticamente le nuove rotte oceaniche alla ricerca di mercati e mercanzie con i relativi profitti. I marinai diventano una categoria importante ma subalterna ed esposta ai rischi e ai disagi della navigazione. Il loro livello sociale era basso e la loro cultura era, di conseguenza, quantitativamente ridotta, scarsamente critica nonché incline alla superstizione. Però erano stati proprio loro ad accorgersi del grande uso che numerosi popoli extraeuropei facevano dei tatuaggi, ed erano assai colpiti dall’importanza che quelle culture attribuivano ai segni tracciati sulla pelle anche per il fatto che quelle persone erano disposte spesso ad affrontare diversi giorni di sofferenza per potersene fregiare. L’impressione era stata così grande che ancora oggi usiamo le parole tatuaggio e tatuare la cui radice fa riferimento al termine samoano tatau che Jeames Cook (1728-1779) aveva trascritto con tattoow e Louis-Antoine de Bouganville (1729-1811) con tataou. Da notare invece che in latino non esistono le due espressioni: il verbo tatuare veniva espresso nominando l’azione (notis compungere) e il tatuaggio era una nota, parola che aveva un orizzonte semantico assai vasto.
Ora invece, nel XVIII secolo, i termini per parlare del tatuaggio esistono e questa pratica, presso alcune categorie sociali, è assai utilizzata. Ancora non sono disponibili le interpretazioni, spesso negative con motivazioni non necessariamente religiose, che la cultura occidentale avrebbe elaborato fra XIX e XX secolo – per queste interpretazioni bisogna aspettare che l’occidente si confronti “meglio” con le altre culture e questo sarebbe avvenuto solo con la decolonizzazione – sicché, provvisoriamente, i marinai della varie compagnie europee di navigazione usano i tatuaggi in relazione alle loro esigenze.
I tatuaggi infatti sono importanti per i marinai per realizzare una sorta di rito iniziatico per i nuovi assunti, o con scopi scaramantici, oppure per esprimere alcuni sentimenti fondamentali, caratteristici delle condizioni di vita della categoria, come ad esempio un cuore o il nome della donna amata o temi erotici. I tatuaggi con funzione scaramantica erano, ad esempio, la rondine che rappresentava il ritorno a casa, la rosa dei venti che significava il buon orientamento e quindi un viaggio tranquillo, o il gallo che veniva considerato una protezione contro i naufragi.
Per quanto riguarda la funzione iniziatica la prassi era la seguente. I giovani marinai al loro primo viaggio ricevevano dai marinai più anziani, che padroneggiavano già le tecniche necessarie, un tatuaggio che aveva la funzione di iniziarli alla loro nuova vita. Una volta giunti al porto di destinazione ricevevano un secondo tatuaggio che poteva consistere in un’immagine che simboleggiava quella città, o una caratteristica particolare del viaggio (ad esempio un’ancora per i porti atlantici, una tartaruga per l’attraversamento dell’equatore); infine un terzo tatuaggio veniva loro praticato quando tornavano a casa, al porto di partenza. Nei viaggi successivi il tatuaggio di iniziazione non era più necessario e si praticavano solo quelli che erano collegati al porto di arrivo ed al porto di partenza. È da questo che deriva la credenza scaramantica, ancora attuale, per cui i tatuaggi devono essere in numero dispari: sono in numero pari quando il marinaio – poveretto! – non torna al porto di partenza.
Altra categoria marginale presso la quale il tatuaggio è stato ed è tenuto in grande considerazione è quella dei carcerati, soprattutto nel caso della delinquenza organizzata. In questi casi si tratta di esibire sia le proprie qualità o prodezze sia il livello gerarchico raggiunto entro l’organizzazione. Ma il tatuaggio serviva anche a “marchiare”, per renderli riconoscibili, coloro che l’organizzazione malavitosa guardava con disprezzo in quanto avevano collaborato con la polizia o con le guardie, oppure avevano rubato nelle celle altrui.
Si tratta, anche in questi casi, dei due usi che abbiamo già visto e che permettono al tatuaggio – come a qualsiasi segno – la funzione di “uniforme” e di “divisa”, cioè di mostrare come un individuo, in base ad una sua caratteristica, sia uniforme ad altri individui che “fanno gruppo” insieme a lui, e contemporaneamente mostrare come questo individuo insieme agli altri che hanno la stessa caratteristica, costituisca un sottoinsieme all’interno di un gruppo più vasto e debba essere considerato diviso da questo.
E questo vale sia per rendere onore ai benemeriti del gruppo vasto, sia per additare ad esso gli elementi in qualche modo pericolosi e che conviene emarginare.
Occorre però sottolineare un aspetto particolare. Questa operazione è relativamente semplice all’interno di una comunità in cui il sistema di valori è condiviso, mentre la situazione è più complessa se all’interno di una comunità, soprattutto quando è grande, complessa e articolata, esiste un gruppo che si differenzia per alcuni caratteri importanti e considera la sua diversità in maniera positiva. In questo caso il segno distintivo innanzitutto non viene conferito dall’ufficialità della collettività ma da coloro che all’interno di quella collettività si sentono diversi, e soprattutto viene considerato un motivo d’orgoglio. Era il caso, come abbiamo visto, dei legionari romani che, pur sapendo che nella loro società il tatuaggio era simbolo di emarginazione e di subalternità, usavano i tatuaggi come un medagliere; oppure dei primi cristiani, che si tatuavano i simboli delle loro religione con fierezza, pur sapendo che questo li avrebbe resi più facilmente riconoscibili. Ed era pure l’atteggiamento di marinai che, all’interno di una società che spesso vietava il tatuaggio, andavano fieri dei loro viaggi, dei percoli corsi, dei loro sentimenti ed anche delle loro paure, tutte cose che avevano vissuto “sulla loro pelle” e dunque proprio lì le volevano rappresentare.
Oggi, con la grande fortuna che la pratica del tatuaggio sta avendo indipendentemente dalla fascia sociale di appartenenza, mi pare che si possano fare alcune affermazioni.
Innanzitutto che è presumibile che le motivazioni del tatuaggio siano legate fondamentalmente ad esigenze di carattere estetico e di “moda”: gli interventi finalizzati a modificare il corpo, da quelli caduchi come la cosmesi a quelli più o meno definitivi come, appunto, i tatuaggi o la chirurgia estetica o il body building (l’espressione inglese mi pare assai più significativa di quella italiana di “culturismo”) si sono saldamente insediati nelle società contemporanee – ovviamente: in quelle in cui vi sono le disponibilità economiche necessarie, o almeno è dominante un modello sociale che considera positivamente solo coloro che le possiedono. La cultura che sta dietro a queste pratiche è quella che pretenderebbe di adeguare la realtà a modelli elaborati entro un orizzonte culturale collocato altrove rispetto al mondo reale, e nel quale si elaborano e si propongono esigenze che altrimenti probabilmente non sarebbero presenti. Operazione che estende il modello economico (se quel cereale non dà adeguate rese per ettaro perché non resiste agli attacchi di un determinato parassita, gli modifico il l’assetto genetico) anche alle questioni estetiche (se le forme naturali non sono adeguatamente turgide provvediamo con inserti di silicone oppure con esercizi fisici che non corrispondono a movimenti della vita reale). E mi pare che i tentativi di poter “fare marcia indietro” rispetto alla definitività di certi interventi sul corpo siano una prova che il mio sospetto è fondato. Il marinaio che si tatuava un drago dorato sul braccio perché era stato ad Hong Kong, non voleva che quel procedimento fosse reversibile proprio in quanto non era reversibile il fatto che lui era andato ad Hong Kong: la realtà del suo essere andato a Hong Kong dava significato al suo tatuaggio. L’adolescente che si tatua il drago dorato perché è un bel disegno, perché l’ha visto in qualche film, perché vuole surclassare i tatuaggi dei suoi amici, fa una cosa che non rappresenta una tappa della sua vita, ne è solo un accessorio estetico. Quindi potrebbe accadere che fra qualche tempo non gli piaccia più e bisognerebbe poterla eliminare, esattamente come una camicia o un paio di scarpe. E infatti sta progredendo la definizione di metodi che permettono di cancellare i tatuaggi.
Questo, a mio avviso, costituisce un bel passo avanti rispetto alla pratica dei tatuaggi nelle epoche precedenti e si lega anche al fatto che la nostra realtà non ha più bisogno di segni esteriori che permettano di individuare i ruoli sociali delle persone. In un tale contesto il tatuaggio è svincolato dai ruoli sia di “marchio di infamia” sia di descrizione delle qualità e narrazione delle imprese di coloro che lo portano. In questo modo il tatuaggio, pur continuando ad essere un sistema di segni e dunque un veicolo di significati, può limitarsi ai significati di carattere estetico ed anche di “marca d’appartenenza nel gruppo dei pari” come diceva il titolo del saggio di Ghiaroni, però senza implicazioni “impegnative”, né in positivo (chi porta questo tatuaggio fa parte del gruppo degli eroi) né in negativo (chi porta questo tatuaggio fa parte del gruppo dei reietti). Se la sua valenza è soltanto estetica allora esso sarà semplicemente bello o brutto, sarà un ornamento ed esprimerà, come già accade per l’abbigliamento, il gusto di chi lo “indossa”.
Penso che possa accadere ai tatuaggi quel che è accaduto ai jeans che, quando sono nati a metà del XIX secolo erano abbigliamento da lavoro e nessuna persona perbene avrebbe mai osato indossarli in altre circostanze, mentre ora, a parte alcune situazioni formali (e magari un po’ “ingessate”), possono essere utilizzati sempre e comunque.
Una tale evoluzione potrebbe permettere di far cadere anche le obiezioni di coloro che, condividendo la posizione della cultura classica per cui il corpo umano è bello così com’è, pensano che ne debba conseguire che il tatuaggio è roba da incivili: costoro, pur continuando a conservare la loro opinione di base, potranno liberarsi dal fastidio di dover giudicare negativamente i seguaci del tatuaggio e potranno valutare i loro ornamenti solo dal punto di vista estetico.
D’altra parte anche l’idea di base sottesa alla pratica del tatuaggio non è così barbara come la civiltà classica pretendeva: se l’uomo è un “animale simbolico” e la sua civiltà è un sistema di segni, allora tracciare dei segni sulla pelle umana è un modo per conquistare alla civiltà anche la superficie naturale di coloro che hanno progettato e costruito la civiltà dandole la forma di un sistema di segni.
[1] Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it., Il Saggiatore, Milano 2002.
[2] Simone Ghiaroni, Stupido è chi non si disegna. Il segno tegumentario temporaneo come marca d’appartenenza nel gruppo dei pari, in Mangiapane F., Marrone G. (a cura di), Culture del tatuaggio, edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2018.
[3] Quell’esperienza è descritta in particolare in Simone Ghiaroni, Il disegno selvaggio. Un’antropologia del grafismo infantile, Meltemi ed 2019.
[4] Levitico 19.28’