Gemonese, Paolo Pischiutti è un medico specializzato in medicina della montagna con un legame con le vette che nasce da lontano.
La montagna è fondamentale, sono nato sotto le montagne. Fin da piccolo con mio nonno e mio padre siamo sempre “saliti”. Mio nonno Elio era presidente del C.A.I., perciò si andava in montagna sia d’inverno che d’estate. Nel periodo dell’adolescenza con gli amici di Gemona; poi verso i 40 anni, dopo una pausa dedicata alla famiglia, ho ripreso con una serie di spedizioni extra europee: Marocco, Nepal, Pakistan, Perù, Alaska insieme ad amici e guide alpine. In quasi tutte queste imprese ho svolto il ruolo del medico di spedizione. Tengo dei diari, anche quando vado fuori in bicicletta per più giorni per avere traccia delle emozioni vissute.
Il Nepal, una regione rimasta neutrale, nonostante le pressioni di Cina ed India e con alcune zone precluse riaperte negli ultimi decenni. Come lo hai trovato? E la burocrazia per arrivarci?
Ho avuto la fortuna di andare in Nepal per la prima volta nel 2001, poi quest’anno, dopo vent’anni. La prima volta c’erano i maoisti che lottavano per il potere e c’era ancora il re. Quest’anno si percepiva una apparente democrazia: ci sarebbero state le elezioni la settimana successiva alla nostra partenza, ma non si notavano da parte della popolazione manifestazioni di interesse. Le influenze di queste due potenze, Cina ed India sono evidenti: tutti e due i paesi hanno donato soldi per fare ponti sui fiumi, ospedali, scuole. In realtà, parlando con la gente, si comprende che molte fette del potere economico sono in mano a questi due Paesi. Così il Nepal può essere visto come sorta di colonia come era il Perù per gli americani. Permessi: per salire in cima vanno fatti per tempo, compresa la certificazione dei vaccini anti Covid ed una serie di autocertificazioni di sana e robusta costituzione.
Da dove viene l’idea “vado proprio lì”?
Siamo partiti il 23 ottobre e tornati a metà novembre. Eravamo in 5 occidentali, 4 italiani ed un americano. Ci siamo aggregati perché “Guido la guida”, gemonese pure lui, ci ha coinvolti nel progetto. Ideato da lui durante un trekking, ha scoperto che Sherson Peack, 6440 metri, non era mai stato scalato e questo ci stuzzicava. Abbiamo deciso quale sarebbe stata la via di salita quando siamo arrivati sotto, visto che le mappe di dettaglio e le descrizioni non erano disponibili.
Come ci si aggrega, comesi legano i compagni dicordata?
In questo caso è stata fatta una scelta di competenza e di capacità da parte della guida che ha organizzato l’impresa. Conoscevo i due partecipanti di Gemona, mentre il partecipante americano e quello di Cividale no.
Il legame con il gruppo, le regole.
Questo è forse uno degli aspetti più importanti per la riuscita del progetto. E’ fondamentale essere in grado di comprendere i possibili conflitti, magari quelli che possono derivare anche da momentanea stanchezza psicologica e prevenirli. In questo caso la testa gioca un ruolo più importante del fisico. Le regole infatti sono la chiave di volta della sicurezza. Si tratta di tecniche dettate da chi guida la cordata ed indicazioni per salute dettate dal medico responsabile. E quindi per una buona riuscita le regole vanno rispettate.
Quanto tempo serve per preparare tutto e raccordarsi?
Per la preparazione fisica dipende dal punto di partenza: sicuramente una buona preparazione atletica. Non tanto alla quota come molti potrebbero pensare, ma relativamente ai tanti dislivelli da affrontare: 1.000, 1.500 metri in una giornata. E soprattutto avere la resistenza di camminare ore ed ore per giorni e giorni. Se non ci si conosce prima, occorre fare qualche uscita di “prova” per potersi raccordare, sia come capacità tecniche, che fisiche ed anche psicologiche.
Il legame con il tuo corpo e con la consapevolezza dei tuoi limiti. Esiste unsenso di sottile presupponenzadi potercela fare?
E’ un legame fondamentale, conoscere i propri punti di forza e di debolezza, sia del fisico che della psiche. Da qui deriva la consapevolezza dei propri limiti. Ognuno di noi ha il “proprio ottomila” che rappresenta il proprio limite e per me è naturale provare a raggiungerlo e superarlo. Da una parte i conti vanno fatti con l’età che avanza, dall’altra l’età che avanza permette di essere un po’ più saggi e comprendere i propri limiti. Quindi non c’è presupponenza di potercela fare; si tratta di un confronto diretto con la montagna ed il proprio limite.
Legami per mantenere ed aumentare sicurezza
Per salire, dal momento in cui abbiamo messo il piede sul ghiacciaio, ci siamo legati: si chiama “progressione in conserva”. Se cadi gli altri ti tengono. Questo è un legame forte. In alcuni tratti abbiamo anche posato delle corde fisse, come ulteriore sicurezza. Sono due tipi di sicurezza volti a garantire che tutti possano essere protetti, se uno di noi dovesse cadere.
Alcuni elementi e caratteristiche di questo progetto, che tipo di approccio avete avuto alla scalata?
Abbiamo utilizzato lo “stile alpino”: niente ossigeno, salire velocemente si, ma con molta attenzione all’acclimatamento con l’altitudine. Di giorno col sole si stava bene, di notte fra i meno 10 ed i meno 20 si faceva sentire il freddo. Non abbiamo avuto grandi problemi con il vento, se non al campo alto a 5.800 metri, nel quale ha soffiato il vento tutta la notte. La tenda sbatteva sulla faccia e c’era freddo pungente. Anche il giorno della salita c’era molto vento e temperature basse, perché l’esposizione era a nord. Ho avuto un principio di congelamento alla mano, che poi si è risolto bene.
Quanti campi?
Abbiamo fatto due campi, il campo base a 5.200 metri con 6 giorni di permanenza ed a 5.800 metri il campo alto, una notte soltanto ma è bastata.
Hai mai temuto di non farcela a ritornare?
Mentre stavamo facendo il trekking mi è passata per la mente la domanda: “ ma chi me lo fa fare” perché mi rendevo conto delle possibili difficoltà a cui saremmo andati incontro ed avevo dubbi sulle mie capacità, non sapendo cosa avremmo trovato effettivamente. Dubbi e domande formalizzate poi dal dover lasciare i nostri numeri di telefono ad un nepalese che, in caso di bisogno, avrebbe avvisato a casa. La necessità è quella di essere sempre lucido e non cedere da un punto d vista psicologico. Poi la maturità e l’esperienza si vedono nel momento in cui, quando è necessario tornare indietro e rinunciare alla vetta, lo si fa. E noi, dopo esserci confrontati abbiamo deciso di tornare indietro quando eravamo alla quota di 6.130 metri.
Avete festeggiato l’arrivo al campo base
Eravamo stanchi, perciò abbiamo festeggiato i giorni successivi. Assieme ai portatori nepalesi, guide e cuochi abbiamo fatto una festa con i “Momo”, involtini con verdure e carne e birra nepalese.
Di notte come si dorme?
Se si dorme, abbastanza inquieti. Una notte in bianco, quella precedente alla salita; eravamo in tre in un’unica tenda da due. Per stare caldi e non portare troppo peso. Tutti in fila, non capo testa. Difficile riposare bene, anche per l’ossigeno che manca.
Cibo, provviste, scaldarsi, come funziona?
Fino al campo base siamo stati seguiti dall’organizzazione nepalese, che si occupava anche della cucina. Al campo alto abbiamo portato il fornelletto e siamo andati di brodo e the, liquidi caldi: dovevamo idratarci molto, essere coperti opportunamente e muoverci per non congelare.
Cosa cerchi?
Cerco pace e solitudine, anche se è paradossale cercare questo insieme ad un gruppo, al quale sei spessolegato con la corda. Da quanto ti svegli alla mattina sei sempre assieme al gruppo, eppure basta stare dieci passi indietro e ti perdi nei tuoi pensieri, dentro la foresta di rododendri.
Allo stesso tempo puoi dunque restare solo con te stesso e con il tuo sentire interiore.