Blognotes 08
Blognotes 16

RISCHIO è il tema del numero più recente di Blognotes 16

Articolo presente in

L’Italia o il rischio delle due Coree

di Elisa Meloni

Le due Coree! Il rischio di avere un’Italia spezzata in due come le Coree! Può sembrare un paradosso, ma è
quello che mi è venuto in mente quando è stata approvata la legge sull’autonomia differenziata: si è
formata davanti ai miei occhi l’immagine dell’Italia con una spaccatura nel mezzo e le due parti che si
staccavano.

Dopotutto, come scrisse un viaggiatore italiano in Corea nel 1904, scorgiamo una penisola che nella
generale configurazione si vuole ricordi lontanamente la nostra penisola italiana. Mi è anzi assai
recentemente occorso di leggere uno studio in una rivista straniera, ove la Corea era senz’altro chiamata
l’Italia dell’Asia…
Ecco quindi che il richiamo alle Coree comincia a sembrare meno peregrino, e possiamo immaginare un bel
41° parallelo al posto del 38° a separarci in due Italie.

Sempre in tema di analogie eccentriche, possiamo menzionare anche il divario di reddito tra Corea del Sud
e del Nord che attualmente si attesta su una proporzione di 27 a 1. Quella tra l’Italia del Centro – Nord e
l’Italia del Sud è attualmente di 2 a 1, ma è pur vero che si può sempre peggiorare!

Esiste però un’immagine più realistica e di attualità geopolitica, la faglia mediterranea descritta da Limes
per indicare l’esistenza di un punto debole tra paesi dell’ordine e paesi del caos, Ordolandia e Caoslandia,
che già inglobava la Sicilia e parte della Calabria.

Nel caso di autonomia differenziata quella faglia arriverebbe fino all’antico confine del Regno delle due
Sicilie: un confine che passava nel fiume Canneto, tra Terracina e Fondi nel Lazio, e nel fiume Tronto in
Abruzzo, e definito dalla storica Georgina Masson il confine che in Europa è durato più a lungo, abolito solo
nel 1861.
Ed ecco che mi vedo appesa al promontorio del Circeo, a pochi chilometri dal Canneto e da casa mia, come
ad un paracadute o a una mongolfiera mentre il resto della penisola si allontana nella corrente marina:
sono salva per un pelo, ma non è una consolazione!

E’ pur vero, a proposito di confini e divisioni, che siamo un paese in cui c’erano gli Abruzzi, le due Sicilie, le
tre Calabrie (questo l’ho scoperto da poco…), le Puglie (anche lì almeno tre!) come anche le tre Venezie, più
svariati Ducati, Granducati, Marche etc., denominazioni che sembrano appartenere a un tempo remoto e
favoloso, ma che esprimono la peculiare varietà che ci rende unici. Da qui a ricordare che siamo il Paese dei
cento campanili, (e si spera non il Paese dei campanelli!) è un passo.

Queste designazioni suggestive alludono a un passato ricco di culture e tradizioni, ma povero
economicamente, di una povertà diffusa a tutte le regioni: terra di mezzadria a Nord e latifondi a Sud, e
fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale circa il 60% della popolazione era contadina e analfabeta.

Eppure questa terra circondata dal mare e abbracciata dai monti ai tempi degli Etruschi era unita dalla
Pianura Padana alla Campania. L’unità completa fu creata da Roma, poi le invasioni longobarde non
avrebbero risparmiato nulla, e si arrivò ai tempi moderni per parlare di nuovo di unità.

Peraltro un fattore di unione, sebbene relativamente recente, è stato la lingua italiana, evoluta da quel
latino volgare che ha dato origine anche alle lingue minoritarie regionali presenti sul nostro territorio, come
il friulano, il ladino e il sardo.
Curiosamente e significativamente, la nostra lingua è l’unica a usare l’espressione madre patria, laddove in
Inglese esiste motherland/fatherland, in Tedesco vaterland, in Francese patrie, in Spagnolo e Portoghese
patria, pátria (è vero, esiste la Madre Russia ma è un’altra cosa…).

Ciò che colpisce nella formula madre patria è il suo essere inclusiva e protettiva, madre e padre allo stesso
tempo. Una patria che è il Paese che si ama (diceva Charles De Gaulle: il patriota ama il suo Paese, il
nazionalista odia tutti gli altri), una patria che può essere un insieme di piccole patrie, laddove queste
rappresentino delle tradizioni e caratteristiche culturali, ma non un terreno di disuguaglianze.
Dunque un paese che non deve essere un territorio sul quale tracciare confini tra noi e loro, abitudine
umana vecchia come il mondo e alla base di antiche e nuove forme di violenza.

E a proposito dell’inveterata abitudine a schierarsi, a essa appartengono a pari titolo il Sudismo e il
Nordismo.
Da una parte il piagnisteo neo-borbonico, che dimentica di rintracciare le responsabilità delle élites del Sud
(i famosi cacicchi, satrapi e viceré), come diceva Alessandro Leogrande: e qui ricordo una patetica
celebrazione neo-borbonica a Ischia, con tanto di banda musicale in costumi d’epoca rossi e blu; dall’altra il
Nordismo, e il pensiero va a una festa dei popoli padani a Venezia: il cartello maggiormente presente tra i
manifestanti reclamava Paron a casa nostra e pien de schei.
Abbiamo tante ferite della Storia che non sono rimarginate e non lo saranno mai, perché non ne abbiamo
avuto cura. E accanto alle ferite della Storia, c’è la Geografia con i suoi costi, come diceva lo storico
britannico David Reynolds in una lezione all’università di Udine nel 2022. Era la citazione di un verso di un poeta
americano, Carl Sandburg, la geografia ha un costo, che lamentava il continuo spostarsi delle zone di
confine in Europa.

I confini sono ferite tra un territorio e un altro, (si sa quanto hanno sanguinato!) ma
hanno la facoltà di essere punti di congiunzione.

Peraltro sono proprio la Storia e la Geografia a ricordarci i percorsi in comune e gli incontri oltre che gli
scontri. In tutto ciò siamo stati animati da capacità di resistenza e adattamento: non sono forse Arlecchino
e Pulcinella due aspetti dello stesso spirito di saggezza popolare e della medesima arte di arrangiarsi?

Tornando all’immagine iniziale delle due Coree, in modo paradossale essa sta a rappresentare il rischio di
perdere, con un pezzo d’Italia, una parte d’identità e pezzi di noi stessi.
E allora, rischio per rischio, bisogna tentare di comporre la frattura che esiste da tempo in questo Paese.
Anche in Medicina si parla di frattura composta o scomposta: nella frattura composta le due parti di osso
rimangono nella loro sede anatomica; in caso di frattura scomposta i segmenti ossei perdono il loro
allineamento e sono dislocati rispetto alla loro naturale posizione. E’ quasi superfluo aggiungere che il
nostro è un caso di frattura scomposta.

Ma vogliamo finire in bellezza, e così ci permettiamo di scomodare Walter Benjamin e la sua espressione
ricomporre l’infranto. Difficile trovare parole più significative per spronare noi stessi (che pure non siamo
angeli della Storia come quello nel dipinto di Paul Klee che ispirò Benjamin) a ricomporre una spaccatura
pericolosa da ignorare.

C’è un tempo per lacerare, c’è un tempo per ricucire… Qohelet, testo sapienziale ebraico
(Midrash Qohelet: lacerare è il tempo di guerra; ricucire è il tempo di pace).

P.S: Grazie alla ripubblicazione questo mese del libro La fantarca di Giuseppe Berto, possiamo trarre
dall’oblio un’altra fantasiosa proposta di soluzione della questione meridionale. In un lontano anno del
futuro, l’autore propone di imbarcare le poche migliaia di terroni rimasti su una fantarca, una sorta di
astronave sgangherata, che li trasporterà su Saturno.
Ovviamente non si dovrà permettere che le terre così sgomberate siano ripopolate, pena il ricrearsi di una
nuova questione meridionale… sarebbe troppo rischioso!