Max Linder! Chi era costui? Nel 1982 di lui si sapeva pochissimo e ancor meno dei suoi film. Georges Sadoul nella sua storia del cinema affermava che Chaplin lo considerava un suo maestro e la curiosità di saperne di più fu la molla che fece nascere, quasi inconsapevolmente, Le giornate del cinema muto, il glorioso festival pordenonese dedicato alle origini del cinema, che taglia quest’anno il nastro della quarantesima edizione. Ricollegandosi idealmente alla prima edizione dedicata a Max Linder, in questo importante traguardo del quarantennale non poteva certo mancare un omaggio al padre putativo del festival. In queste pagine pubblichiamo due ampi estratti dal libro MAX di Stéphane Olivié Bisson, inedito in Italia, grazie alla cortese disponibilità dell’edizioni Cambourakis di Parigi. È una toccante e partecipata biografia epistolare che Bisson scrive come una lunga lettera/confessione dello stesso Max Linder indirizzata alla figlia Maud, dove il comico francese (primo vero grande divo cinematografico europeo degli Anni Dieci) ripercorre in prima persona tutta la sua vita fino al tragico epilogo. I due brani scelti del libro di Bisson riguardano in particolare il rapporto di Max Linder con gli Stati Uniti e con il suo amico Charles Chaplin dove si narra, tra le altre, che Charlot circolasse, tra le colline di Hollywood, a bordo di una limousine nera guidata da un autista giapponese e Linder, cogliendo la palla al balzo, per tutta risposta si attrezzò con una limousine gialla e con autista nero. Ma tra il dandy francese e il Nuovo Mondo non fu vero idillio e Max Linder mestamente rientrò in Europa agli inizi degli Anni Venti. I profondi segni lasciati nel fisico e nello spirito di Linder non trovarono pace nemmeno quando, il 2 agosto 1923, convolò a nozze con la giovanissima Hélène Peters. Lui aveva 38 anni e lei 17. I ventidue anni che li separavano peseranno come un macigno sul futuro del loro rapporto. Gelosissimo della giovane moglie, nel momento in cui deve lasciare la Francia per recarsi a Vienna a girare appunto Max, der Zirkuskönig (Le Roi du Cirque; Il domatore dell’amore), la farà pedinare da detective privati per scoprire eventuali tradimenti. L’inverno 1923/24 era particolarmente rigido a Vienna e Linder, nonostante Hélène gli avesse detto di essere incinta, non riesce più a concentrarsi sul lavoro, inizia con cinque settimane di ritardo, non trova la vena giusta nelle gags, si sente finito. La moglie lo raggiunge in Austria ma ha paura di quest’uomo strangolato dalla depressione.
Max Linder era stato ingaggiato da Ernst Szücs degli studios Vita-Film di Vienna per girare un film ambientato nel mondo del circo dal titolo Max, der Zirkuskönig (Le Roi du Cirque; Il domatore dell’amore). Nelle intenzioni del produttore la presenza di Linder, riconosciuto divo di prima grandezza, avrebbe dovuto segnare l’inizio dell’attività dello studio di Rosenhügel, ma dopo una tormentatissima lavorazione il film si arresta improvvisamente. Il 23 febbraio 1924, infatti, Max Linder ha tentato il suicidio assieme alla moglie ingerendo una sostanza da lui preparata. Nel patto di sangue con la sua compagna lui beve per primo la pozione e Hélène avrebbe dovuto seguirlo subito dopo. In realtà lei si spaventa e chiama soccorso: Max Linder è salvo. Tornati a Parigi il 27 giugno 1924 in Boulevard de Montmorency nasce Maud la loro figlia; ha gli occhi grigio-blu a differenza dei genitori che hanno entrambi occhi scuri e questo acuisce l’insopprimibile gelosia che attanaglia Linder. Intanto il 20 febbraio 1925 all’Aubert Palace di Parigi esce Max, der Zirkuskönig (Le Roi du Cirque; Il domatore dell’amore) con i manifesti che riportano lo slogan coniato dai produttori: “Max Linder, l’artista più popolare al mondo dopo Chaplin”. Come spesso avviene nel paese natale di un artista, i critici francesi non furono benevoli. La moglie Hélène con la sua bimba sempre più impaurita abbandona il talamo coniugale. Linder nel 1925 lavora ad un suo nuovo film Il cavaliere Barkas (Le Chevalier Barkas) dove prevedeva anche un ruolo di piccola principessa per sua figlia Maud. Possiede anche un cinema, il Max Linder Panorama al numero 24 del Boulevard Poissonnière a Parigi (tuttora in attività). Ma la sera del 30 ottobre del 1925 all’Hotel Baltimore finalmente Max Linder riesce a materializzare l’incubo che lo perseguitava da tempo mettendo fine all’insostenibile dolore esistenziale, al suo male di vivere, trascinando con se anche la giovane Hélène e lasciando sulla culla della loro camera la piccola Maud. La mattina del giorno seguente verranno scoperti i due cadaveri in un bagno di sangue. Con il nuovo restauro del suo ultimo film Max, der Zirkuskönig (Le Roi du Cirque; Il domatore dell’amore) curato dalla Lobster Films di Parigi, Le giornate del cinema muto renderanno omaggio a questo genio immortale del cinema.
Max (estratto parte prima) di Stéphane Olivié Bisson
[…] Nel 1916 trascorro la convalescenza facendo una cura termale a Contrexéville. Qui, mi diverto a smascherare le numerosissime spie straniere ospiti della clinica […] In quel periodo ricevo la visita di un certo George Kirke Spoor, direttore della Essanay di Chicago. È appena uscito da un processo intentatogli da Chaplin, il quale ha lasciato la Essenay per poter realizzare a suo piacimentoi il film Carmen. Spoor mi propone di succedere a Charlie nella scuderia della società. Mi offre un contratto d’oro per dodici film a cinquemila dollari alla settimana! Sono troppo esausto per pensare, non gli rispondo ma gli chiedo di aiutarmi a preparare la borsa dell’acqua calda. A ventinove anni, sono il primo, il solo, l’unico in cima ad un’arte che ancora balbetta: il cinema. Cos’altro posso fare, se non vivere nella paura che possa arrivare un altro […] Alla fine decido di accettare l’invito del produttore George K. Spoor e imbarcarmi per gli Stati Uniti. Raggiungo la Essanay. A tutto il 1917 ho girato complessivamente più di cinquecento film. Me ne resterebbero solo dieci da girare. Pochi! Appena arrivato a New York, nel novembre 1916, la stampa scandalistica americana sfodera subito gli artigli. Non si parla che di soldi. A loro avviso nessun divo comico ha mai incassato cinquemila dollari alla settimana! Il che è del tutto falso, poiché nello stesso periodo, Chaplin riscuote il doppio senza che nessuno trovi in questo niente di osceno o sacrilego. E che cattiva idea hanno avuto i miei produttori americani, questi falsi prìncipi ricchi e cavillosi, formalisti e “parvenus” di voler metterci uno contro l’altro, Chaplin ed io, con tanta violenza; solo per dei fini puramente commerciali! Presentano Charlie come un comico da marciapiede “sporco e sordido” e Max Linder come lo sfidante “più pulito”! Ci trattano come due detersivi e mi attribuiscono prodezze del tutto inventate. […] Un effeminato giovanotto vistoso, che sbarca a Ellis Island con i suoi quarantasei bauli di vestiti confezionati in rue Saint-Honoré, il classico francese affettato, esattamente come gli Americani se lo rappresentano […] Per loro sono quel bravo giovanotto dalle belle toilettes che cerca la sua strada da quando era bambino, col naso per aria tra piazza Vendome e il Palais-Royal, negli assurdi labirinti di Feydeau e Labiche serpeggiando tra le porte che sbattono e le ombrellate. So French! Ma resto in guardia e come dicono: “You can’t teach Granny to suck eggs!” ossia “Non puoi insegnare ad una vecchia scimmia a fare le smorfie!” D’altronde non parlo una sola parola d’inglese. Sul set del mio primo film americano Max comes across, mi faccio capire difficilmente. A Chicago si lavora al ribasso, in capannoni mal riscaldati. Ha il sapore del cinema in scatola. Patisco il loro inverno interminabile, la solitudine e vari disturbi. Su consiglio di Chaplin, il 6 marzo 1917, decido di trasferire le riprese del mio terzo film americano in California. Si tratta di Max and his taxi a cui Charlie si ispirerà per la scena dei due ubriaconi in Luci della città. In qualche settimana riesco a realizzare tre film prima che i miei dannati polmoni non si sbriciolino ancora di più. Eppure il mio contratto mi costringe a produrne ancora altri nove. Mentre tento di rimettermi in sesto nel sanatorio di Los Angeles, la stampa americana sguinzaglia i suoi cani: “Chi si crede di essere questo francese che si esime dall’onorare i suoi contratti?” La critica ai miei primi film americani è disastrosa. C’è un legame? Non lo saprò mai. In quanto ai miei produttori, giocando il tutto per il tutto, hanno deciso di aumentare la pressione su Chaplin attaccandolo in tutti i modi, valendosi dei peggiori trucchi. Arrivano addirittura al punto di inventare che progetterei di sfidare Chaplin a duello con la scusa che lui avrebbe rifiutato di raggiungere al fronte i ragazzi che stavano combattendo in Europa. Solo nel mio sanatorio, a migliaia di miglia da Chicago, al confine con l’altro oceano, nessuno mi avverte di questa nuova manovra. Il guaio ormai è fatto! Il pubblico americano si schiera dalla parte del geniale inglese, yankee di adozione, e si schiera istintivamente contro quel borghesuccio francese, profumato e arrogante. Tutte queste notizie false orchestrate da nababbi ebbri di dollari e di certezze sono state la causa della mia rovina e qualunque cosa dica, quelle false notizie mi restano attaccate addosso come un cemento. I miei produttori si lamentano pubblicamente che Max faccia perdere loro montagne di soldi. Chaplin intanto vola di trionfo in trionfo mentre i miei film incontrano solo la poetica calma delle sale vuote per tre quarti. La mia esperienza col Nuovo Mondo diventa una Via Crucis. I cinema programmano solo Chaplin! Gli Americani non si interessano, nel 1917, alle prodezze troppo innocenti di un dandy francese che va a zonzo con uno fiore di mughetto all’occhiello mentre i cadaveri dei ragazzi al fronte vengono sepolti nei buchi lasciati dagli obici lungo le sponde della Somma. […] Di quel periodo venefico ricordo delle invenzioni, delle trovate che ispireranno l’intera scuola burlesque americana. Tutti, o quasi tutti, hanno saccheggiato ampiamente la mia opera, a volte apertamente, a volte più discretamente, il più delle volte negandolo! Charlie sceglie queste parole per farmi la dedica su una foto:“To the only Max, the professor from his disciple, Charlie Chaplin”. […] George K. Spoor, che ha appena rescisso il mio contratto con molto rumore, comunica che soffro atrocemente delle mie “ferite di guerra” e che devo tornare in Francia per motivi di salute. Un’altra menzogna! […]
Max (estratto seconda parte) di Stéphane Olivié Bisson
[…] Nel novembre 1919, pensando di essermi ristabilito, mi imbarco di nuovo per le Americhe sul Mauritania […] Prima di partire, Chaplin mi aveva promesso di far distribuire il mio prossimo film dalla grande compagnia United Artists, da lui diretta insieme a Douglas Fairbanks, Mary Pickford e D.W. Griffith. Sognavo già di essere un compagno d’armi dei Big Four! Ma non accadde! Non mi fu proposto nessun contratto e quindi dovetti impegnare tutto il mio patrimonio per girare il mio film. Ho affittato uno degli studi dell’Universal City e in queste condizioni, più che precarie, realizzavo il mio primo vero film americano: Sette anni di guai (Seven Years Bad Luck). Purtroppo, questa grande terra dove tutto è possibile rifiuta alle produzioni straniere i migliori circuiti per la distribuzione, anche se sono girate nei loro studios. Per non parlare poi dei continui ritardi, degli arresti forzati e dei cavilli imposti dagli studios e dai sindacati. In America, si sogna, si produce e si consuma prima americano. […] Sono soggetto a frequenti crisi di disperazione. […] Non ho mai visto nessuno lavorare quanto Chaplin. Esaurisce ogni suo gesto fino all’osso. Ma cosa incredibile, non si vede mai la fatica. Anzi sembra musica creata sotto i nostri occhi! E il risultato è meraviglioso! Ogni scena viene girata venti volte oltre le prove, le messe a punto, le riprese e viene ripetuta più di cinquanta volte! I suoi capelli sono bianchi come quelli degli uomini divorati precocemente dalla loro passione. […] Non ho mai smesso di essere abbagliato a Charlie e non lo sono mai stato tanto che da quando sono il suo amico. Con Charlie, attraversiamo tutti e due tra il 1921 e il 1922 una pesante e lunga crisi di umore nero. Nessuno dei due ha più la forza di essere comico! Capita che ci diamo appuntamento nel giardino per allenarci a “essere allegri”, a “essere gioiosi”, a cantare, fischiare, ballare… Ma siamo solo penosi, immancabilmente cupi e desolati, infinitamente! […] Charlie è riuscito, lui, in quello che io non ho osato: dare un’idea al maggior numero dei movimenti segreti del proprio cuore. Raggiungere la poesia tramite l’emozione e solo tramite lei. Se solamente avessi potuto, se avessi saputo… Fortunatamente, Sette anni di guai (Seven Years Bad Luck), accolto tiepidamente negli Stati Uniti, si venderà benissimo nel resto del mondo. Alcune mie gags a volte non erano capite dai branchi di spettatori americani. Ma per niente al mondo avrei abbandonato Feydeau, Labiche o Courteline per convertirmi alla grassa risata in batteria di Mack Sennet! La scuola burlesque americana è una volgare officina che produce in quantità industriale torte per sommergere la terra! Io amavo Chaplin! Come lui ricominciavo ogni scena decine di volte fino a quando i miei muscoli e le mie membra scricchiolavano, fino a raggiungere il movimento perfetto. Anche se il mio patrimonio si scioglieva sotto il bel sole californiano, facevo costruire degli scenari fantastici. Non è sbagliato dire che il Nuovo Mondo ha lasciato in me un sapore amaro. A poco a poco fui sopraffatto da un’altra malinconia: la Francia mi mancava! Per dimenticarla, decidevo di diventare sul posto una specie di re azteco, un imperatore della Cina in esilio. Pur avendo cura, soprattutto, di non frequentare gli altri francesi in trasferta ad Hollywood, quell’orda consanguinea di esuli del cinema che s’incontra al Shopping Center! Eppure mi voltavo sul primo accento francese che sentivo per strada. […] In libreria a volte mi capitava di trovare dei periodici d’attualità vecchi di 6 mesi che mi riempivano di gioia! O qualche libro ingiallito e ammuffito, come l’Almanacco Vermot, Fanfan et Claudinet, le opere complete e eterne di Paul de Kock o dei biglietti d’auguri dell’anteguerra, ma quale? Compravo le mie sacrosante pastiglie Valda e le mie caramelle di zucchero preferite da “Le Chien qui saute”. […] “Trascorro a Hollywood dei giorni veramente orrendi, mettendo a rischio il mio patrimonio e la mia salute. Ma il mio amor proprio e la mia reputazione mi vietano di tornare in Francia senza avere ottenuto qui almeno una vittoria!” queste sono le parole che scrivevo a mia madre. In compenso, davo sontuose feste. Il mio umore, di solito triste e cupo, cambiava miracolosamente con l’irruzione rumorosa e colorata di quegli animali variopinti e chiassosi, bugiardi e deliziosi, quelle colonie di creature delle spettacolo, che ne facevano sicuramente parte o che facevano finta di farne parte. I miei invitati erano belve in libertà, sirene velenose dalla pelle dorata dal sole e dai brillanti. Eroe da dramma russo, tutto curvo un’ora prima, diventavo all’istante un Figaro saltellante, leggero e disinvolto. “Così francese!”, ripetevano sempre, come un mantra logorante! Durante la festa di San Silvestro 1921, per svegliarli mi sono lanciato in una lasciva danza di morte con la leonessa che appare in Sette anni di guai, divertendomi a giocare al domatore con la tranquillità sconcertante dei suicidi.