Perché amo gli alberi
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe della solarità
Eugenio Montale, I limoni
Gli alberi hanno delle caratteristiche che di solito non osserviamo. Stanno fermi. É un’ovvietà ma chi si ferma a pensare che gli alberi stanno fermi? Eppure questa loro caratteristica intrinseca è potente, a pensarci un attimo. La nostra vita, per dirla con un fisico, si svolge su quattro dimensioni: lungo, largo, alto, e poi il tempo. All’albero due coordinate sono precluse, sta lì immobile, è suo regno la crescita e il tempo. Meraviglia! Noi condividiamo questo mondo con animali, rocce ma gli uni vagano come noi, persi in un girovagare che a una mente pensante suscita a volte una grande angoscia, una sorta di disperazione profonda, di smarrimento, mentre le rocce o le montagne stanno lì immobili e identiche a se stesse, fisse in un tempo geologico. L’albero è diverso, ci insegna questa meraviglia bidimensionale: sta lì, immobile certo, ma cresce, occupa un centro immutabile e vive in un tempo che condivide con noi. Nel nostro girovagare, fosse pure all’interno di una città o di un quartiere, l’albero ci aspetta ogni mattina come una coordinata, un segnaposto che ci consente di darci quei riferimenti topografici che ci mancano sotto i piedi e che trasformerebbero il nostro andare in uno smarrimento. Quanti romanzi contengono un passaggio come “dopo anni ritornai sotto lo stesso platano della mia infanzia”? L’albero di fatto è la vita che ti aspetta in un punto, è una sicurezza che ti garantisce di non smarrirti. Una volta qui c’era un vecchio pino ma ora è scomparso”. E’ lo smarrimento, il tramonto di un paesaggio, lo sbiadirsi tragico di una mappa mentale e di un pezzo della nostra sicurezza. Sotto un albero si nasconde un tesoro perché l’albero è la garanzia di un punto sicuro, rintracciabile (sto leggendo I miserabili, forse si sente). Paradossalmente è più gettonato di una roccia come riferimento perché condivide con noi una cosa, quella quarta dimensione che ho accennato, il tempo della storia. L’albero di fatto conta il tempo mentre noi siamo assenti, è una sorta di accumulatore di stagioni, di anni: mentre noi siamo lontani l’albero ci aspetta paziente eppure cresce, conta gli anni per noi. “Quando sono partito era alto così, lo piantai con mio padre”. Ora è un albero grande, nella sua chioma conto i miei sessant’anni e so che anello dopo anello il suo tronco li contiene come in un forziere, senza averne dimenticato nemmeno uno. Io invece, i miei anni li ho smarriti per strada, si sono accumulati sulla mia schiena come un peso disordinato e nell’ordine dell’albero posso invece contarli uno ad uno, ripassarli stagione dopo stagione. Ulisse, il nostro grande archetipo, si riconosce negli alberi che gli aveva donato suo padre Laerte. C’è anche oggi a volte l’usanza lodevolissima di piantare un albero quando nasce un bambino: è il suo albero, se la distrazione della nostra vita non glielo facesse dimenticare in quell’alberello potrebbe contare la propria esistenza in qualsiasi momento volesse, prendere la misura di se stesso.
Ci sono malattie che si curano abbracciando alberi, dicono che da essi emani una forma di energia speciale che ti riempie l’anima. Non lo so, questo non so dirlo, ma è certo che abbracciare un albero è abbracciare il tempo e l’immobilità, è identificarsi con quell’axis mundi che tutte le culture hanno sempre identificato proprio con un albero. Come il mondo gira attorno ad un asse preciso così le nostre vite vagabonde hanno bisogno a volte di trovare un asse attorno a cui ruotare o finalmente restare immobili, una verticale che colleghi i nostri piedi terrestri con i nostri pensieri, che ci restituisca un assetto come un filo a piombo che ci rimetta sulla verticale.
I giapponesi conoscono lo Shinrin-Yoku, la passeggiata consapevole e rigenerante nel bosco e questo davvero, ve lo posso garantire personalmente, è un’esperienza che funziona. Camminare fra i tronchi verticali e le radici piantate nel terreno saldamente, sotto le chiome che crescono lente e ondeggiano libere è una terapia formidabile: ci insegna la pazienza dell’immobilità, la pazienza della crescita lentissima, la saldezza che ci àncora a terra ma anche la sete di cielo, di luce. Occorre starci un po’ di tempo, in silenzio, immobili, perché siamo inquinati dalla velocità e dal rumore. Dopo qualche tempo eccovi ritornati a un ritmo giusto, a una frequenza lentissima adeguata alla nostra anima. Minuto dopo minuto impariamo di nuovo a “stare”, a stare in questo mondo con il nostro corpo e la nostra vita.
Ma torniamo in città, passeggiamo tranquilli. Un altro pensiero voglio suggerire, spero non sia solo mio. Quando guardiamo delle panchine, dei muri, delle pensiline, insomma tutto l’arredo urbano che sappiamo, quando guardiamo le case e i condomini vi è un senso di effimero che avvolge ogni cosa. Quella panchina fra qualche anno sarà distrutta, sostituita, quella casa sarà abbattuta, perché così è delle cose umane, perché sono cose che nascono morte.
Un muro, un tetto, un grattacielo hanno una loro immobilità illusoria perché come sono stati fatti così sono destinati a finire nell’arco della nostra vita o poco oltre. Gli alberi li percepiamo diversamente. Certo, è ovvio che un albero può cadere, seccarsi, morire, essere tagliato, ma se ci pensiamo un attimo è l’unica cosa viva che abita le nostre città oltre a noi. Non ci parla di parabole di decadenza, senescenza: ci parla di crescita, di futuro, anello dopo anello, pazientemente ma con costanza. É per questo, io credo che quando si abbatte una casa fatiscente l’evento non ci scompone molto e pensiamo ad un rinnovamento, quando si abbatte un albero lo sentiamo come una violenza. Contro il paesaggio, contro noi stessi, da farci salire le lacrime agli occhi.
Per questa ragione amo gli alberi, perché la loro presenza ci cambia il senso delle cose, del tempo, ci àncora a dei cicli che sono gli unici cicli veri, quelli delle stagioni, della lentezza. Quando passeggiando per la città, dopo case e portoni, tram e automobili, improvvisamente ci si spalanca davanti agli occhi un viale alberato di alberi antichi, o un piccolo parco ci regala una regale magnolia fiorita, ecco che ritorniamo a una verità dimenticata, ecco che ritorniamo quello che siamo: vivi, liberi, ed è un’emozione che a volte ti commuove fino alle lacrime.
E allora non piantateli dentro dei miserabili vasi come fossero bonsai, non capitozzateli per risparmiare qualche lira di potatura, non tagliateli per far posto all’ennesima scatola di cemento che durerà meno di loro. Non fatelo perché un albero non è solo un albero. E’ un ricordo e un riferimento e noi senza ricordi e senza riferimenti siamo perduti.