Monica Puto è di Porcia (PN), dal 2009 vive in Colombia e fa parte dell’ Operazione Colomba, corpo civile nonviolento dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (www.operazionecolomba.it). Potrebbe essere considerata una specie di guardia del corpo volontaria controcorrente, perché accompagna, completamente disarmata, i contadini colombiani nei loro spostamenti come protezione contro le possibili azioni violente dei gruppi armati illegali e non che insediano i territori della “Comunità di Pace” di San Josè di Apartadò nella regione di Antioquia. Le “armi” con le quali scorta piccoli gruppi di contadini, sono ben visibili: la bandiera della pace e le maglie di colore arancione, simbolo di nonviolenza. Si tratta di un villaggio colombiano dove una Comunità di contadini/e cerca di uscire dalla spirale perversa di una ideologia politica e di un comportamento di violenza e sterminio contro un processo alternativo agricolo e pacifico. La Comunità è rappresentata più o meno da 200 persone effettive, più quelle che la supportano a vario titolo e ne adottano parzialmente le linee di comportamento e già nel ’97 si proclama neutrale rispetto al conflitto armato.
Resistendo con una strategia non violenta, attraverso un processo, accompagnato anche dalla Chiesa Cattolica, che ha portato alla costituzione della Comunità di Pace, nella convinzione che pace genera pace e che la loro Comunità sarebbe stata rispettata dopo la dichiarazione di neutralità, fatta davanti alle autorità della Chiesa di varie ambasciate e organizzazioni internazionali per i Diritti Umani.
La guerra in Colombia, infatti, ha lasciato sul terreno oltre 250.000 morti ed oltre 8 milioni di sfollati; la popolazione civile delle zone agricole sperimenta quotidianamente ancora, nonostante la firma nel 2016 dell’accordo di pace tra il Governo Colombiano e le FARC-EP, episodi di aggressione da parte della guerriglia dell’ ELN e di gruppi paramilitari, in particolare delle AGC (Autodefensas Gaetanistas de Colombia) nella zona dove è presente la Comunità di Pace.
La testimonianza di due rappresentanti della Comunità, Arley e Jean Carlos.
Arley Antonio Tuberquia
La resistenza non violenta è possibile? La testimonianza di chi soffre violenze, resta nel territorio e resiste senza armi dice di si, come spiega Arley: “Noi eravamo solo contadini, siamo diventati l’obiettivo di strategie di violenza e sterminio. Abbiamo deciso di resistere con una strategia nonviolenta. Pensavamo che la neutralità fosse una alternativa, ma cominciarono i massacri appoggiati dai paramilitari, dalle Farc e dalla forza pubblica con aggressioni contro la popolazione civile. Ci son stati momenti in cui si mangiava una volta al giorno, o si saltava e mangiavano solo donne e bambini. In 26 anni, però, è fiorita e si è consolidata l’esperienza di essere e fare Comunità nonviolenta. E’ molto complesso e molto forte non rispondere alla violenza con la violenza, resistere davanti ai torturatori di tua moglie o tuo figlio, ad esempio. Occorre rispondere alla violenza ed alla morte con l’amore per la vita, dare una risposta creativa, anche nei confronti di quello che chiamiamo nemico. Un esempio? Raccogliendo i cadaveri degli assassini dei nostri familiari che alcune volte morivano in combattimenti tra i vari gruppi e nessuno andava a recuperare. Abbiamo fatto tutto questo per amore della vita e per ridare dignità a chi è morto. Siamo convinti che prima di tutto, anche davanti all’errore, siamo uomini. Alle aggressioni, la Comunità ha risposto con la vita, proseguendo coltivando la terra, facendo ritorno collettivamente nei villaggi che erano stati costretti ad abbandonare a causa della violenza. Dopo 26 anni dalla formazione della Comunità, possiamo dire che ne è valsa la pena, anche ricordando uno dei più grandi massacri, dove hanno perso la vita il padre di Jean Carlos, Luis Edoardo Guerra e il suo fratellino Deiner insieme ad un’altra famiglia con due figli piccoli, Natalia di 7 anni e Santiago di 8 mesi per mano dell’esercito regolare ed i paramilitari.”
Jean Carlos Guerra
“Sono morti il 21 febbraio 2005, mio padre, portavoce della Comunità, la sua compagna, e il mio fratellino di 10 anni. E’ stato molto difficile crescere in questo contesto, ma l’esperienza ha mostrato che è possibile farlo quando c’è una Comunità attorno che sostiene ed unisce. Soprattutto in una Colombia violenta e crudele, dove il governo non ha mai aiutato, noi reagiamo autonomamente proteggendo la vita, difendiamo la pace, la nostra terra, difendiamo l’ambiente, la fauna e la flora, la biodiversità sulla terra dei nostri avi e indipendentemente dallo stato.
Ma a causa della situazione di insicurezza e violenza per noi è molto importante l’accompagnamento dei volontari/e di Operazione Colomba e di altre organizzazioni che tutelano i Diritti Umani. Jean Carlos per reazione avrebbe potuto scappare lontano o entrare in un gruppo armato per vendicare la morte dei suoi familiari. Ha scelto invece di restare a San Josè proprio perché sostenuto dall’affetto della Comunità e dall’accompagnamento internazionale. Attualmente la problematica è ancora più acuta per la persecuzioni che si manifestano verso i piccoli coltivatori, a causa degli enormi interessi economici in una terra così ricca di tutto, oro, acqua, banane… Si contano più di 300 vittime ad oggi nella Comunità di Pace, dove l’impunità è quasi totale e nessuno dei colpevoli è in prigione. Non solo ci sono stati massacri, ma anche più di 3500 violazioni dei Diritti Umani. La Comunità ha rotto tutte le relazioni con le strutture statali proprio dopo il massacro del 21 febbraio 2005 e la stessa Corte Costituzionale colombiana ha emes- so una sentenza in cui ordina allo stato di ottemperare a 4 condizioni richieste dalla Comunità per poter riaprire il dialogo con il governo:
- Che il presidente ritratti le accuse contro la comunità accusata di essere guerrigliera dopo il massacro del 21 febbraio 2005.
- Che lo stato riconosca la zona umanitaria della Comunità di Pace come rifugio e protezione per la popolazione civile.
- Che venga istituita una commissione per verificare perché tanti massacri e an- che con prove evidenti e la totale impunità
- Che vengano spostate la base di polizia e quella militare da San Josè imposte dall’ex presidente Alvaro Uribe dopo il massacro del 2005.
Lo statuto della Comunità di Pace prevede inoltre il rispetto di alcune regole per i suoi membri a tutela della propria sicurezza e del proprio lavoro come Difensori dell’ambiente e dei Diritti Umani.”
Ivana Truccolo