Recentemente, cercando di mettere ordine o meglio, illudendomi di farlo, tra i libri sparsi tra casa mia, quella dei miei genitori e quelli presenti nel mio studio a Shanghai, ho trovato un libro in tedesco che mi regalò l’Architetto Otmar Barth, un giorno in cui lo visitai presso il suo studio di Bressanone. Una sua dedica su un libro che mostrava molti dei suoi progetti ma anche di altri architetti del Trentino-Alto Adige. Era il 14 dicembre 1994.
Un bell’incontro, dove si discusse dell’architettura come spazio di luce, di forme, di geometrie e di materiali, dei grandi Maestri. Con la sua pacata, gentile voce Barth sottolineava alcuni maestri in particolare come L. I. Kahn. Parlando del suo progetto all’epoca in corso di costruzione a Pordenone scrissi degli appunti che qui riporto alla vostra attenzione.
Gli anni ‘80 e ‘90 sono stati per Pordenone molto importanti per la rivalutazione di alcuni ambiti urbani e per la collocazione di edifici la cui architettura riveste un ruolo fondamentale per la lettura della stessa città. Esemplare in questo senso è il progetto di fabbricati ad uso di attività pastorali e diocesane con annessi servizi culturali (biblioteca, archivi e museo) ed abitazione del Vescovo e dei sacerdoti, ad opera del Prof. Arch. Otmar Barth.
Il lavoro del progettista, con la collaborazione dell’arch. Perego di Belluno (direttore dei lavori) e dell’Ing. Dell’Anna di Pordenone (calcolatore delle strutture), ha una valenza non solo dal punto di vista meramente estetico ma anche per la sua configurazione geometrica e il suo legame con il contesto. L’ambiente nel quale è insediato il complesso religioso è di particolare suggestione ambientale, ricco di connotazioni tipiche dell’ambiente fluviale e della inconsueta presenza di una modesta collina, elemento raro ma connaturato nel suo insieme. L’antropizzazione delle zone circonvicine non ha compromesso le caratteristiche del sito e costituisce, comunque, elemento che deve essere stato tenuto in considerazione nella stesura del progetto a seconda del tipo di rapporto che si viene a creare con la collina, la scarpata e il corso d’acqua.
Fra le zone di non immediata vicinanza trova grande rilevanza, nella considerazione del progettista, Il Duomo della città sia per il contenuto che per l’elemento simbolico. Esso è in rapporto visuale con il nuovo complesso poiché sorge su di un’altra collina geomorfologicamente “sorella” di quella su cui si è progettato il nuovo edificio. Conseguente a queste premesse il progetto ha voluto sottolineare i caratteri della collina senza distruggerla.
È stata, sin dai primi momenti, rifiutata dal progettista l’idea di un unico grande contenitore entro cui organizzare gli spazi relativi alle diverse funzioni, in quanto «ruolo della progettazione è di adattarsi alle circostanze. L’architettura è una questione di spazi. La creazione meditata e significante di spazi» (L.I. Kahn).
E questo non solo perché sarebbe stato un errore sul piano semantico ma anche perché il rapporto con la collina e il contesto naturale sarebbe stato, con ogni probabilità, un non-rapporto. Si può notare come l’intero progetto sia stato ideato quasi “per parti” al fine che ognuna di queste rispondesse in modo plastico e definito ai suoi assi contestuali.
Dalla planimetria si evince la volontà di una programmazione accurata e dettata dall’addizione e sottrazione di elementi sia naturali che artificiali come il verde, l’acqua, lo spazio di relazione, ecc.
Verso il fiume non un edificio continuo, non un muro o un limite ma una composizione geometrica incorniciata dalla presenza del pieno e del vuoto, da elementi di apertura e chiusura mediata dalla massa volumetrica giocata in proporzione materica. La cappella del Vescovo, posta al centro del sistema, con una lama obliqua indica il suo rapporto con il Duomo posto sull’altra collina in centro città.
Si è accennato al significato autonomo e precipuo delle parti dell’intero sistema: nelle intenzioni del progetto c’è quella di negare il significato di apparato amministrativo per privilegiare quello di “casa del Vescovo” con privilegio dei momenti spirituali connessi (la cappella, il museo diocesano, la biblioteca, il luogo di incontro, la sede del giornale).
Così facendo il progetto esalta il momento “comunitario” tra gli elementi che lo costituiscono e lo pone in primo piano per chi entra e questo non certo e solo per motivi funzionali. Dall’articolazione delle parti è nata la necessità di unire fra loro gli elementi ed il tessuto connettivo ed è il corpo centrale che accoglie gli uffici delle Istituzioni ecclesiali ed i servizi connessi ma è anche il muro che chiude verso sud-est il prato-sagrato su cui si affacciano gli elementi che sono stati descritti.
Tra gli edifici di particolare importanza ci sono l’episcopio che sorge ad ovest, presenta lo studio del Vescovo, i locali per le udienze, la cappella privata ed altri locali. Si accede attraverso un percorso porticato, evocativo delle residenze storiche e dei conseguenti percorsi nel chiostro, che esalta e rende consapevole il momento “dell’andare” in relazione alla meta del percorso.
Oltre all’episcopio, è importante l’ubicazione della biblioteca, del museo e dell’archivio diocesano collocati ad est del sistema in due corpi contigui anche se spazialmente articolati in modo diverso. Nel baricentro compositivo dell’intero complesso è, come accennato, collocata la cappella, caratterizzata dall’essenzialità geometrica dei volumi che la compongono e dalla tangenza al bacino d’acqua, elemento di attrazione del vicino ambiente fluviale. L’accesso è dal portico al piano terra, ma al primo piano si aprono gli affacci sul matroneo collegato da un percorso pianeggiante al blocco servizi annessi.
Dal punto di vista dei rapporti con gli edifici residenziali esistenti posti sul lato settentrionale, è da notare l’articolazione spaziale che il progetto pone in essere a completamento di tali volumi. Il parcheggio, sullo stesso lato, è posto ad un livello superiore rispetto alla strada in modo da sentire il mantenimento della scarpata, ovvero il segno della collina.
Una delle esperienze più “armoniose”, più “suggestive” dell’intero complesso si ha spostandosi attraverso una serie di ambienti illuminati in modo differente.
Percorrendo l’atrio, girando intorno ai corpi scala, entrando e uscendo dai corridoi, si incontrano varianti di luce che vanno dalla massima intensità alla penombra.
Questa serie di ambienti illuminati in modo diverso fa pensare alla “casa Vietti” a Pompei.
È questo, senza dubbio un risultato dell’interesse di Barth per i problemi relativi alla luce naturale, di come essa entri in un edificio per delimitare gli spazi e definirne le funzioni.
“La pianta di un edificio dovrebbe leggersi come una armonia di spazi nella luce. Anche uno spazio che si intende resti oscuro, dovrebbe avere appena un po’ di luce proveniente da qualche misteriosa apertura, per dirci quanto oscuro sia in realtà. Ogni spazio deve essere definito dalla sua struttura e dal carattere della sua luce naturale.” (L. I. Kahn)
Otmar Barth con questa opera pordenonese mostra di possedere la singolare dote di conferire dignità e forza sia ai materiali da costruzione più comuni ed economici sia agli spazi trasformandoli in sogni ed esperienze, in luoghi in cui si sente la presenza dell’architettura.