Credo che in poche situazioni come nel caso dell’amore risulti evidente che il tempo, anziché un fluire meccanico e uniforme, è di fatto una percezione dell’anima. Ogni amore ha una sua storia, mai uguale certo, ma che per qualche ragione si sviluppa in modi ogni volta simili e prevedibili, e ad ogni fase sembra si possa associare una percezione del tempo specifica. Si tratta di un percorso che forse rischia di diventare esercizio intellettuale, ma è affascinante provare a ritrovare i diversi momenti della parabola amorosa nei primi autori della letteratura occidentale che si sono occupati intensamente di queste faccende, cioè i lirici greci, in particolare Saffo, per scoprire come il tempo di fatto sia un filo rosso di grande rilievo nella loro produzione oggi purtroppo sopravvissuta quasi esclusivamente in forma di frammenti.
L’amore intanto è il tempo dell’istante. L’apparizione della persona amata è capace di condensare e fermare il tempo. Il presente della figura amata diventa esclusivo, è un tutto. E’ il tempo dell’aoristo, una forma che possiede solo il greco e che indica il tempo fuori dal tempo, né passato né presente, ma assoluto, esclusivo. “Gongila … prendendo la delicata arpa, fino a quando di nuovo un simile desiderio voli intorno a te, che sei bella” dice Saffo nel fr. 22.10 Voigt (trad. Gennaro Tedeschi) e pare di sentire il Goethe del Faust “Fermati attimo, sei bello“.
Ma se combiniamo questa idea con l’idea della fugacità dell’istante ecco che il momento presente, il tempo della presenza è necessariamente tempo già passato, votato al sacrificio della scomparsa. “Venisti, bene facesti, io ti bramavo, portasti refrigerio nel mio cuore ardente di passione” (fr. 48). Difficile tradurre perché quell’aoristo iniziale indica al contempo l’eccezionalità del momento che sospende ogni scansione di orologio, ma anche il suo trascorrere rapidissimo, il suo essere già trascorso.
L’incontro, l’istante, è sublime, capace di paralizzare l’innamorato come paralizza il tempo che lo circonda. Lo si veda in passi come “infatti appena di fronte ti guardo” fr. 23.3 o il celeberrimo “come, anche per poco, ti guardo ecco che non riesco più a parlare” fr. 31.7. Il tempo è immobile, chi ama non riesce a fare nulla dunque, il tempo si è fermato davanti a questa invasione improvvisa di senso. Si è usciti dal tempo, dalla vita per un eccesso di vita: “poco lontano dall’essere morta sembro a me stessa” (ibid.)
L’innamoramento ha poi la capacità di far collassare il tempo umano sul tempo degli dei: l’istante fugace paradossalmente acquista la dimensione dell’eternità e Saffo può parlare con Afrodite, il tempo degli uomini e quello degli dei per un breve istante si riallineano: ed ecco la discesa vertiginosa della dea sulla terra al richiamo della poetessa innamorata “Subito giunsero; e tu, o beata (scil. Afrodite), sorridendo nel tuo volto immortale, chiedesti perché ancora una volta soffrissi“(fr. 1.13 ss.)
L’istante della presenza è circondato dal tempo della speranza e dell’attesa come al fr. 33 “Potessi io, Afrodite dall’aurea corona, ottenere questa sorte”, che è tempo del desiderio e spesso tempo dell’urgenza, proprio quella stessa urgenza che ha conosciuto chiunque sia mai stato innamorato nella sua vita. Si veda in tal senso il fr. 65 “Tu certo mi amavi … adesso (aiutami ) secondo l’animo (mio)“, oppure la conclusione imperativa e disperata della prima ode “quello che l’animo brama per me si compia, còmpilo, e tu stessa sii mia alleata” (fr. 1.26 ss.). Di tono più cantabile e popolare ma ugualmente indicativo di questo tempo che incalza è il fr. 102.1 “Madre mia dolce, proprio non riesco a tessere la tela: sono aggiogata dal desiderio” che ci racconta le pene di una giovane fanciulla presa nella rete dell’amore.
Questo è anche il tempo della dipendenza: di questo tempo idealizzato in cui si concentra ogni nostro desiderio e noi siamo schiavi inermi, proiettati ad una identificazione totale con l’istante dell’epifania: “Perché dopo avermi colpito senza motivo fai scempio di me con il desiderio che mi piegò le ginocchia” (fr. 26.5) si chiede Saffo, che con la perentorietà determinata anche dallo stato frammentario altrove così descrive questo momento: “Tu mi arrostisci” (fr. 38)
Tipico del mondo greco e di Saffo in particolare, è l’idea del tempo dell’amore come tempo ripetitivo: l’esperienza dell’innamoramento è destinata a ripetersi, ogni volta uguale, ogni volta con la stessa potenza incontenibile. Il tempo che ritorna è dominante per esempio nella prima ode di Saffo dove l’avverbio deute, di nuovo, è ripetuto ben tre volte: Afrodite sorride perché la richiesta di aiuto si ripete uguale in questa iterazione ossessiva a cui noi mortali siamo incatenati.
E’ una situazione oltremodo vera, sperimentata da tutti noi ma paradossalmente ci suona strana, a noi moderni cresciuti dopo l’ubriacatura romantica, come se la ripetitività togliesse qualcosa all’esperienza dell’innamoramento che vorremmo esclusiva, unica, eterna. Eppure dagli antichi impariamo anche a dirci questa cosa, che l’auspicio di eternità che vorremmo per il nostro amore deve fare i conti con la mutevolezza della sorte, con il nostro eterno fluire nel tempo. Anche per Saffo l’amore era collocato in un tempo eterno, come impariamo facilmente da passi come “questo mio pensiero non potrà mai cambiare” (fr. 41) oppure “infatti dico che intendo amarti fino a che in me resti respiro” (fr. 88.14 s.), ma la poetessa sa cogliere e trasmettere come nessun altro tutta la dolorosa ambiguità di un sentimento che è eterno e fugace al tempo stesso.
La parabola dell’amore, dopo il momento della passione, ci racconta di un tempo sospeso e ambiguo, che nasce dal sentimento della sua fine. E’ un tempo in cui idee ed emozioni si scontrano, stridono, un tempo che non passa e si riavvita di continuo su se stesso, un tempo del dissidio. Ora siamo in balia di un avvicendarsi ossessivo di pensieri, siamo in balia di un tempo sospeso che ci scuote e ci tortura. “Non so cosa fare: due pensieri mi tengono” dice Saffo al fr. 51, ma è un tema che ricorre in altri autori, da Anacreonte a Catullo che splendidamente ci racconta di un trapasso in cui si odia e si ama e non si sa come questo possa accadere ma sentiamo impotenti che accade (fieri sentio): siamo in balia dell’incertezza, il tempo ci tiene prigionieri, prigionieri di noi stessi e di un pensiero angosciante e ossessivo.
Questa fase può coincidere con il tempo della solitudine: l’amore non è ancora finito ma già assaporiamo il gusto amaro dell’esclusione: “La luna è tramontata e anche le Pleiadi, è a mezzo la notte, via trascorre il tempo, e io giaccio sola” (fr. 168b). Le domande si affollano: con chi sarà l’altro? dove sarà? ci ricorda ancora?
Quella magica fusione dei tempi, delle vite dei due innamorati si scontra con una dissonanza: si apre una frattura e i due tempi iniziano a scorrere con ritmi diversi. Per chi ama ancora il tempo rallenta, inciampa, tenta disperatamente di ricalibrarsi sul tempo dell’altro, oggi magari in strazianti inseguimenti sui social o in ossessivi messaggi che hanno lo scopo di riallineare gli orologi sfasati.
A volte purtroppo questo è solo l’anticipo della conclusione. Ogni storia d’amore ha una fine e ogni fine è profondamente dolorosa. La fine di un amore è un lutto, ci insegna Recalcati nello splendido La luce delle stelle morte, dove non si distingue mai fra la scomparsa di una persona cara e l’abbandono dell’amato. La fine dell’amore è il congelarsi del tempo, la sua implosione negativa. Il tempo non scorre più, non ha senso il suo srotolarsi in ore, giorni, mesi. Tutto è congelato in una immobilità che sa di morte. L’abbandono ci ha gettato fuori dal tempo, la fine dell’amore non è solo la morte dell’altro, è anche la nostra morte. Subentra ineluttabile il tempo immobile della fine, dovuta a mille fattori contingenti o ad una scelta dell’amato. Il tempo collassa, la fine della relazione diventa la fine corsa del nostro tempo. E’ una situazione che anticipa la morte, dove il tempo davvero si fermerà definitivamente: l’abbandono è la sperimentazione temporanea della morte. In Saffo tanti luoghi ce lo raccontano, attraverso l’esperienza che molte volte avrà vissuto quando una delle sue amate allieve del tiaso dovette partire per andare sposa in qualche città lontana. “Davvero vorrei essere morta . Lei mi lasciava piangendo” ci dice in modo esplicito al fr. 94.1 e lo ribadisce con forza al fr. 95.11 “Di essere morta il desiderio mi tiene “.
In greco è il tempo misero del presente (thélo, échei), un tempo banalizzato e appiattito, tornato in modo lacerante a un semplice calcolo delle ore, dei minuti, senza idealità e slancio. Noi siamo abbandonati nel nostro presente senza senso, in pericolo di essere cancellati e scomparire definitivamente dalla vita, perché tu, che io amavo e amo “… di me non hai memoria” come si dice in modo illuminante al fr. 129a.
Il momento preciso della fine, l’istante della chiusura non si lascia individuare, forse perché è una comunicazione così drammatica che non si lascia tradurre in parole, forse perché avviene nel silenzio, in un momento indefinito, in uno strascico penoso di assenze e silenzi. Ma ben evidente è il tempo successivo, il tempo del ricordo. Alla fine subentra il dolore, come si è visto sopra, ma successivamente il “lavoro atroce del lutto” (così lo definisce Recalcati) porta al riemergere dolce dei ricordi, la memoria dei momenti belli che si salva dal naufragio della relazione e diventa parte di noi. Tempo di nostalgia, desiderio controllato e dolce: “Così ora lei mi ha fatto ricordare Anattoria, che è lontana. Di lei vorrei contemplare l’incedere seducente” (fr. 16.16) oppure, analogamente, “ma io voglio richiamarti alla memoria le tue parole e quante piacevoli e belle esperienze provavamo” (fr. 94.9). A volte è il tempo del distacco, del superamento rassegnato o lucido di un’esperienza sentimentale, perché il tempo leviga e logora tutto, anche i ricordi più belli, e ricomincia a scorrere normale.
Lo sa bene Saffo che senza rancori dichiara “Io ti amavo, Attide, tanto tempo fa” (fr. 49.1) dove appunto il tempo si è dilatato di nuovo, è ritornato nostro e ha consentito all’immagine amata di allontanarsi in una prospettiva lunga.
L’amore “di nuovo” ricomincia, “di nuovo” finisce, ma ogni volta moriamo un po’, ogni volta ci avviciniamo di più alla vecchiaia, e non sarà un caso che molte delle poesie di Saffo, soprattutto nei ritrovamenti più recenti, ci parlino proprio del tempo che resta come del tempo della vecchiaia: “mi dissecca la pelle ormai la vecchiaia e angoscia circonda la mente, via da me il desiderio vola” ci racconta al fr. 21 6, perché davvero alla fine di ogni amore lasciamo incollato qualcosa di noi, moriamo un po’ davvero.