Camminare nel tempo e con il tempo può essere un’esperienza semplice se ci accompagna la consapevolezza di riconoscere i cambiamenti che incontriamo lungo il percorso. Lo possiamo fare calpestando, ma con rispetto, percorsi già intrapresi da altri, oppure guardandoci attorno per osservare le stratificazioni di stili e modalità costruttive nelle opere dell’uomo. Non è poi così difficile riconoscere tutto questo muovendosi nella città, ma il modo più semplice per ascoltare il respiro del tempo nel vivere quotidiano è senza dubbio rivolgersi alle lancette di un orologio, oppure seguire i cicli di luce e buio scanditi dal sole che si manifestano intorno a noi con la variabilità delle ombre che ogni cosa proietta vicino a sé. Quest’ultimo è il principio su cui si basano gli orologi solari, quelli che più semplicemente chiamiamo meridiane.
Certo le lancette e le ombre rappresentano un retaggio antico che non appartiene a quest’epoca, fatta più di fretta che di ascolto del tempo, ma è chiara la loro differenza con i numeri che appaiono sugli schermi dei nostri cellulari: i primi sono pubblici, ovvero di tutti, mentre gli altri appartengono a ognuno ma non per questo sono anche una risorsa collettiva. Qui entra in gioco l’aspetto sociale del tempo: ci tiene assieme restituendo il senso di appartenenza e ce ne possiamo accorgere quando alziamo gli occhi per cercare qualche riferimento che ci faccia capire “che ora è”, per intendere “chi siamo”.
Non è difficile fare questo nel centro storico di Pordenone a partire dal palazzo municipale sul cui avancorpo, progettato da Pomponio Amalteo, è presente il quadrante di un orologio che segna “le ore del giorno, li mesi dell’anno ed il zodiaco e nell’ultimo specchio dell’ordine corinzio, le fasi lunari” (1). È praticamente impossibile passarci accanto senza notarlo e camminando lungo il corso, l’asse viario della città che un tempo congiungeva la “porta di sopra” con quella “di sotto”, la “trevigiana” con la “furlana” (2), rappresenta un riferimento ineludibile slanciato com’è verso il cielo. Sembra che tutto abbia inizio, o fine, proprio da lì, d’altra parte fin dalla loro apparizione, che si stima attorno al duecento, gli orologi pubblici rappresentavano un elemento di orgoglio per la comunità che li commissionava, per questo appartenevano più all’ornamento urbano e al prestigio che alla pubblica utilità (3).
Quelli arricchiti con riferimenti astronomici, come quello pordenonese, erano poi fantastici nella loro capacità di mettersi in relazione con il cielo, tanto che Derek de Sola Price, uno dei grandi storici della scienza del ‘900, sosteneva che i primi orologi meccanici non fossero altro che parti di macchine astronomiche, “un angelo caduto dal cielo dell’astronomia” (4).
L’orologio pordenonese risale alla prima metà del 500, poi verso la fine di quel secolo ne venne istallato un altro sulla torre esterna della porta Trevigiana e infine un terzo, nei primi anni del 600, sul campanile del convento dei Cappuccini (5). La città stava crescendo e gli orologi pubblici dovevano soddisfare nuove necessità, ma di questi rimane solo quello della loggia municipale che ancora conserva le sue fattezze esterne. A muovere il tutto, però, non c’è più la macchina originale, di cui si sono perse le tracce, e nemmeno quella installata nel 1880 dai Fratelli Solari, costruttori della Val Pesarina dove dalla seconda metà del XVII secolo era fiorita un’intensa attività in questo campo, ma un più “banale”, benché preciso, dispositivo elettronico.
Ciò che forse pochi sanno è che per garantire l’efficienza di tali dispositivi meccanici c’era bisogno di una persona che costantemente ne curasse la manutenzione e fosse anche in grado di compensare le loro inevitabili imprecisioni con l’aiuto di un orologio solare. Certamente uno era presente in prossimità dell’orologio, o forse addirittura all’interno del suo alloggiamento, tale da permettere al moderatore incaricato di svolgere il proprio compito. Ma c’era anche il tempo dei cortili che veniva scandito da singole meridiane.
Non è difficile trovarle nel centro storico della città, basta capitalizzare l’orientamento del Corso nella direzione nord e la disposizione degli edifici costruiti su lotti lunghi, stretti e perpendicolari all’asse viario. In questo modo rimangono disponibili lunghe pareti rivolte a sud, e quindi ben soleggiate, buone per ospitare una meridiana. Così lasciando alle spalle la loggia e il suo orologio non è possibile incontrarne qualcuna nei cortili, anche se non tutti accessibili, come nel caso di quella di palazzo Torossi, che ancora in buono stato di conservazione riporta l’anno in cui è stata tracciata: 1837. Proseguendo se ne può incontrare una più moderna in piazza del Cristo che porta la firma di Sam, un artista che fu autore di molte altre meridiane sul territorio, e un’altra è visibile nel cortile di palazzo Policreti, accompagnata da un salomonico avvertimento: “al sol misuro i passi, all’uom la vita”. Quest’ultima è segnata da una doppia tracciatura delle linee orarie: una per le ore italiche l’altra per quelle ultramontane, le prime diffuse tra i popoli di cultura cattolica fino alla seconda metà del XVIII secolo e sostituite da quelle ultramontane, ovvero le attuali, con l’arrivo di Napoleone.
Nell’ora italica la giornata era divisa in 24 ore che venivano numerate a partire dal tramonto del sole, così era possibile calcolare anche le ore di luce residua, un aspetto importante per la società di allora basata sull’agricoltura e in cui la luce giocava un ruolo importante. L’inconveniente era però che l’ora del tramonto cambiava durante l’anno, così che lo stesso momento della giornata era individuato con ore diverse l variare delle stagioni. Una traccia di questo modo di misurare il tempo si trova ancora in un’espressione come “portare il cappello sulle ventitré”, che vuole indicare l’inclinazione della falda per proteggere gli occhi dai raggi del sole basso sull’orizzonte, un’ora prima del tramonto.
Sul territorio si possono incontrare altri quadranti solari con i due sistemi sovrapposti e governati da un unico stilo, come ad esempio quello presente nel centro storico di Porcia, ma anche orologi solari con solo le ore italiche. È il caso di quello presente sulla facciata di Villa Ottoboni, a Pordenone, o sulla barchessa di Villa Correr, a Porcia, o ancora quello di Villa Querini, a Visinale di Pasiano di Pordenone. Quest’ultimo, in particolare, si dichiara nella sua data di realizzazione, ovvero 1734, quando ancora vigeva quel sistema orario.
Molti di questi testimoni del tempo sono stati abbandonati, tanto che servirebbe un accurato restauro per recuperarli, se non proprio cancellati, come nel caso del grande orologio solare che fino agli anni sessanta del secolo scorso faceva bella mostra di sé sulla facciata di Palazzo Badini e che ancora si può vedere in alcune foto di quel periodo. Una preziosa testimonianza cancellata da un recupero che non è stato capace di considerare questa preziosa testimonianza di un tempo che sembra non appartenerci più.
1) Valentino Tinti, “Compendio storico della città di Pordenone con un sunto degli uomini che si distinsero”, Venezia 1837, in Giulia Cesare Testa (a cura di), “La storia di Pordenone di Valentino Tinti”, Pordenone, 1987.
2) “[…] et Pordenon è bellissimo, pieno di caxe con una strada molto longa, si intra per una porta et si ensse per l’altra” (Marin Sanudo, “Itinerari di Marin Sanudo per la Terraferma veneziana nell’anno MCCCCLXXXIII”, Padova 1847). Nella classifica dei tipi urbani proposta da Luigi Piccinato, la città medievale di Pordenone appartiene “al tipo più semplice ed elementare rappresentato dalla formazione urbana lineare nella quale la generatrice è rappresentata da una strada. La quale strada può addirittura concludere in sé l’intero paese espandendosi semmai nel mezzo a forma di piazza. […] Comunque la città lineare stradale ad una sola generatrice deve quasi sempre la sua origine alla necessità di creare una stazione di posta o di cambio di cavalli lungo una strada o presso un traghetto di fiume”. (Luigi Piccinato, “Urbanistica medievale”, Bari, 1993)
3) Jaques Le Goff, “Tempo della Chiesa e tempo del mercante”, Torino 1977
4) David S. Landis, “Storia del tempo. L’orologio e la nascita del mondo moderno”, Milano, 1984.
5) Stefano Zanut, “Gli oroòogi di Pordenone nella storia della città” in “La voce di hora” n.30/2011