Blognotes 08
Blognotes 16

RISCHIO è il tema del numero più recente di Blognotes 16

Articolo presente in

Tutta la conoscenza è contaminazione

di Paolo Venti

L’idea comune è che contaminazione coincida con macchia, intrusione illecita, degrado. Cultura contaminata è cultura che ha perso in qualche modo la sua originaria purezza, la sua perfezione. Altri spiegheranno in queste pagine che forse contaminazione significa incontro, significa apertura e capacità di mettersi in discussione, di accogliere idee originali, nuove per far lievitare quelle vecchie e ormai tramortite, improduttive. A me piace fermarmi qualche minuto sull’idea di cultura come intimamente contaminata, perfino contaminata da se stessa, sulla capacità di generare conoscenza proprio e solo dalla contaminazione fra saperi. E’ la vecchia questione delle due culture, della cultura umanistica e scientifica come opposte nei metodi e negli intenti a cui aveva accennato Charles Percy Snow già nel 1959. Oggi sappiamo che i due settori non sono così distinti ma vorrei attirare l’attenzione sul fatto che addirittura ciascuno dei due vive di profonde interrelazioni con l’altro. La matematica si contamina di poesia, la pittura si contamina di fisica e biologia. Non è una novità, la contaminazione era addirittura unità, normalità per la cultura antica in cui gli scienziati componevano in versi e i poeti sapevano di astronomia. Era abitudine fra gli studiosi ellenistici scambiarsi difficili problemi da risolvere scrivendoli in versi e un poeta come Lucrezio si è occupato essenzialmente di teorie fisiche, atomi, vuoto, leggi scientifiche, fino a farne il poema più bello che ci sia giunto dal mondo antico. Dante e la matematica, Dante e la fisica sono oggetto di seminari e mostre perché il nostro poeta sommo fa poesia con i numeri e le figure geometriche. Einstein ha scritto da qualche parte che “I grandi scienziati sono sempre anche artisti”. Leonardo da Vinci era creativo sia quando dipingeva sia quando ideava macchine per volare o demolire fortificazioni.

Foto di Francesco Marongiu

Oggi dovremmo essere consapevoli che la contaminazione si consuma dentro di noi, che ogni sguardo che pretende di essere esclusivo e settoriale è destinato a ricadere su se stesso, riducendosi a tautologia. Le grandi intuizioni della fisica moderna, almeno nella fase teorica, sono di fatto comprensibili più come slancio artistico e poetico, fantasia che solo successivamente il calcolo e l’esperimento potranno confermare. La scienza non è una lineare e asettica ricerca della verità, del tutto astratta e unidirezionale: come affermava Stephen Jay Gould (che pare abbia formulato la sua teoria della contingenza dopo aver visitato la Basilica di San Marco a Venezia) «la scienza non è una macchina obiettiva guidata dalla verità, ma è una quintessenza dell’attività umana, influenzata da passioni, speranze e pregiudizi culturali. Le tradizioni culturali influenzano fortemente le teorie scientifiche…». Ma di teorie scientifiche nate come “intuizioni” artistiche è piena la storia recente: Daniel Shechtman, Nobel per la chimica nel 2011, dice di aver ipotizzato l’esistenza dei quasicristalli osservando l’arte islamica, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

Foto di Zeno Rigato

Lo scienziato insomma prima intuisce, vede, immagina per via “artistica”. La concezione di certi spazi matematici sembra appartenere tanto alla consequenzialità logica che alla fantasia artistica e sfondo porte aperte se ricordo che Kandinsky o Paul Klee e tanti altri raccontano con strumenti diversi lo sfaldarsi delle certezze che Einstein raccontava per formule. Le architetture di Escher sono intuizioni artistiche o provocazioni matematiche? Sul tema hanno riflettuto in molti e ricorderò solo Primo Levi, chimico e scrittore, che scrive “Sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo”.

Gadda era ingegnere, Leonardo Sinisgalli, anche, e scriveva con incredibile acutezza: “Io sono sicuro che se i nostri scienziati e i nostri tecnici considerassero l’esercizio della scrittura alla stregua di un’operazione dignitosa (una vera e propria lima del pensiero) , e se viceversa i letterati e i filosofi e i critici accogliessero con rinnovata simpatia, le ipotesi e i risultati del calcolo, dell’esperienza, una concordia nuova potrebbe sorgere tra le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo”. Ci sono stati poeti e narratori che hanno attinto a piene mani dalla scienza: Calvino nelle Cosmicomiche è l’esempio più eclatante ma citerei anche Buzzati o magari tutto il filone della narrativa fantascientifica, o quel testo formidabile che è la Piccola cosmogonia portatile di Queneau. Più vicina a noi, splendida come sempre, il premio Nobel Wislawa Szymborska, riesce a trovare con una naturalità sorprendente una profondità poetica perfino nell’apparente aridità del pi greco.

È degno di ammirazione il Pi greco

tre virgola uno quattro uno.

Il corteo di cifre che compongono il Pi greco non si ferma sul bordo della pagina,

È capace di srotolarsi sul tavolo, nell’aria, attraverso il muro, la foglia, il nido, le nuvole,

E invece qui due tre quindici trecentodiciannove il mio numero di telefono

il tuo numero di collo l’anno millenovecentosettantatré sesto piano

ma non il Pi greco,

oh no, niente da fare,

esso sta lì con il suo cinque ancora passabile,

un otto niente male, un sette non ultimo,

incitando, ah, incitando

l’indolente eternità a durare.

Che fra l’altro molte opere siano leggibili attraverso rapporti geometrici (sezione aurea ecc.), che la bellezza stessa sia forse celata in una serie di proporzioni matematiche è cosa abbastanza nota (recentemente è uscita in edicola una serie di volumi sul tema curati da Odifreddi), come il fatto che molti testi o poesia nascondano simmetrie, ricorrenze, cifrari.

Ma che la matematica stessa abbia in sé una bellezza è ugualmente vero tanto che esiste una graduatoria della formula più bella  (fra parentesi pare essere eiπ = −1 nota come identità di Eulero, ma non chiedetemi cosa significa…).

Foto di Zeno Rigato

Molto la scienza può imparare dall’arte (il bello, l’imprevisto, il surreale, lo sguardo altro…), molto l’arte dalla scienza (a non banalizzare la creatività, per esempio, ad accettare la durezza di certi itinerari del pensiero).

Vien da dire che la cultura in fondo è contaminazione, sempre e comunque: una disciplina funziona come lievito per un’altra, permette nuovi punti di vista, permette di crescere.

Questo è uno stimolo utile anche nella didattica, utile perché mira a formare un uomo “enciclopedico” nel senso di completo, capace di punti di vista diversi, di approcci originali e, appunto, di contaminazioni indispensabili.