I legami spesso stravolgono l’impostazione della vita. In montagna rappresentano ancora vincoli quasi indissolubili, soprattutto se riguardano gli affetti familiari. È il caso di Giovanni Donada che in un batter d’occhio ha dovuto cambiare professione. Aveva il posto fisso in banca con un ruolo di responsabilità, andava in giro per le filiali del Friuli.
Era il suo lavoro, in perfetta sintonia con gli studi. Si trovava bene. Poi la svolta: il padre era costretto a lasciare il mestiere di mugnaio per motivi di salute, dopo sessant’anni trascorsi nel mulino tutto suo.
Aveva anche fatto investimenti importanti per rinnovare i macchinari. Il figlio si è trovato così improvvisamente davanti a un bivio: mantenere in vita l’attività o sbaraccare tutto? “Non ho chiuso occhio per alcune notti, perché avevo sul groppone una grande responsabilità. Toccava a me fare un passo in avanti per non troncare – racconta – un’attività che durava ininterrottamente dall’Ottocento”.
Storia di una dinastia. Era in gioco infatti l’eredità del mestiere che aveva tenuto legati il bisnonno, il nonno e il papà Rino. La decisione è arrivata al termine di lunghi tormenti: “la banca poteva fare a meno di me, l’azienda no, altrimenti sarebbe andato in fumo un romanzo popolare che continuava a mantenere vivi i legami dei Donada con la Carnia”. I ragionamenti, condizionati soprattutto da motivazioni affettive, hanno così trovato come sbocco la lettera di dimissioni dall’istituto di credito per assumere la guida del mulino di Baus, nel piccolo borgo omonimo in comune di Ovaro. Era il 2007.
Giovanni si alza di scatto e stacca dalla parete la grande foto in bianco e nero che ritrae i volti dei Donada. Lì c’erano più generazioni a confronto: “Ecco la sintesi della nostra storia in un’immagine”, e gli occhi gli brillano.
La commozione si mescola con l’orgoglio: “Siamo gente di montagna, i patti di generazione si devono rispettare. In fin dei conti, che cosa mi costava? il mestiere lo sapevo fare perché il mio aiuto non mancava mai”. Dopotutto era pur sempre un figlio d’arte, cresciuto dalla gavetta. Gli anni della Ragioneria li aveva passati sui libri, ma anche in bottega perché faceva comodo qualche braccia in più nei periodi più movimentati. E i mesi estivi li passava dentro lo stanzone a impolverarsi di farina. Adesso Giovanni è l’ultimo mugnaio, almeno a tempo pieno, della Carnia. Il suo “sacrificio” ha mantenuto il valore sociale ancorato all’impresa, quello di non abbandonare la montagna.
Un po’ ovunque gli impianti industriali si sono mangiati i piccoli, quelli ancora artigianali. Ma i grandi non svolgono l’attività poco redditizia di prossimità, quella che garantisce i servizi fin dentro l’ultima valle. Non hanno buoni margini di guadagno.
“Nella vita il denaro non è tutto. Noi abbiamo sempre lavorato per conto terzi – spiega – magari con clienti importanti, senza trascurare però i piccoli che continuano ad arrivare con poca roba da tutte le parti. Questa scelta permette di tener vivi i minuscoli appezzamenti.
Senza il nostro punto di riferimento a chi si sarebbero rivolti quei piccoli coltivatori?”. Ecco la funzione sociale di un’azienda di modeste dimensioni in un paese di montagna.
Al mugnaio di Baus è rimasta la passione che continua a manifestare attraverso gesti quasi liturgici. Giovanni tocca la materia prima, che è prevalentemente il mais giallo per polenta; passa i chicchi da una mano all’altra, annusandoli; contempla l’uscita della farina per poi metterla nei sacchi, attento a non perdere nulla. “Qui lo spreco è un sacrilegio”, avverte sorridendo.
Gli scarti della lavorazione sono usati semmai per gli animali, perché nulla si butta: “Ci sono i pollai”. Lo stanzone dove si svolge il lavoro è un via e vai di persone, perché mantiene le caratteristiche di un luogo di accoglienza e di confidenze.
Quattro ciacole e via. Gli avventori sono trattati da amici. In un angolo c’è ancora un pezzo di archeologia: il vecchio impianto che ha funzionato fino agli anni ’70 grazie all’acqua del torrente Degano.
È così visibile l’evoluzione tecnologica della vecchia professione: dalla ruota ai cilindri, dall’acqua all’elettricità. “Oggi purtroppo – commenta preoccupato – paghiamo bollette pesanti.
Speriamo che passi presto questa maledetta crisi, altrimenti saranno guai perché non possiamo scaricare costi gravosi sui nostri clienti”.
Nel mulino si preparano gli ingredienti per il rito della polenta, che resiste nei paesini, perché è l’anima del Friuli. “Da cibo per necessità – spiega Giovanni – si è passati ad alimento di compagnia e di festa”. È una tradizione che però resiste: il profumo continua a diffondersi nelle case.
“Guai se qualcuno parlerà male di te, polenta mia”, ripeteva padre David Maria Turoldo, il frate di Coderno ricordato come “poeta ribelle”.
Lui narrò delle tante pannocchie raccolte nei campi, sgranate con il ferro; e altre pannocchie che diventavano farina nei vecchi mulini di pietra. “E finalmente la polenta!” esclamava. “Il rito resiste perché conserva un legame con il territorio – aggiunge Giovanni – anche se sono cambiati i modi di preparazione”.
La polenta prendeva forma e consistenza nel paiolo di rame, messo sulla stufa a legna: “Si lasciava che un po’ di fumo la affumicasse il tempo giusto per insaporirla. Era necessaria un’oretta.
Energiche mescolate davano così la dovuta consistenza, poi veniva rovesciata sul tagliere, affettata con il filo usato per cucire”.
Era un’opera d’arte. Oggi è diverso: si trova già pronta nelle confezioni di plastica, ma è polenta?