Teo Zanin, affianca l’attività di assistente per campagne fotografiche di moda e per reportage editoriali destinati a magazine internazionali ad una ricerca personale in cui la fotografia interviene modificando quanto meno possibile il paesaggio umano che rappresenta.
“Uomini blu” è un racconto fotografico condotto nel 2015 sulla vita domestica delle famiglie originarie del Niger che risiedono a Pordenone dalla fine degli anni novanta e che costituiscono la seconda comunità Tuareg più numerosa d’Europa.
La Fotografia è un linguaggio? È uno degli interrogativi che ha accompagnato la sua storia per oltre un secolo e che rimarca la vaghezza dei suoi con- fini concettuali.
I codici della Fotografia non sono sufficienti a delineare i messaggi che porta con sé perché i significati di un’immagine fotografica non sono univoci e nemmeno esclusivi: dipendono perlopiù dal rapporto che essa stabilisce con il suo referente, con il luogo e il tempo in cui l’immagine si genera e viene fruita.
Per dirlo con le parole di Charles Sanders Peirce, la Fotografia è un segno indicale¹: un filo resistente tiene insieme il fotografo, il soggetto che inqua-
dra e il destinatario dell’immagine.
Da qui in poi, l’equilibrio tra i fattori della sequenza operator – spectrum – spectator ² dipende dalle modalità con cui, consapevolmente o inconsapevolmente, ognuno di essi si pone nei confronti degli altri due.
Può essere questa una chiave attraverso la quale comprendere l’approccio narrativo di Teo Zanin?
Il fotografo entra in contatto con la comunità Tuareg di Pordenone nei primi giorni del 2015; viene invitato ad entrare nelle loro case, prende confidenza con gli spazi dimessi delle loro stanze, osserva le dinamiche dei rapporti familiari e ascolta gli uomini discutere di religione, di politica e del controllo delle miniere d’oro ai confini tra Niger e Libia, mentre Al Jazeera li aggiorna sull’attentato a Charlie Hebdo³.
L’avvicinamento discreto e deferente della sua esplorazione lo preserva da quel tipo di sovrastruttura estetica che talvolta offusca la lettura diretta di ciò che accade davanti all’obbiettivo fotografico.
Tutto si concentra proprio sul delicato processo di relazione tra lui e ciò che avviene di fronte a lui: Teo arriva in silenzio, in punta di piedi ed evita, per quanto possibile, che la sua presenza alteri i comportamenti di chi gli sta di fronte, quasi fosse un fotografo naturalista.
Ciò che passa attraverso la sua lente è una visione polisemica, i termini della quale sono spesso tra loro contraddittori.
I segni materiali della modernità stanno vicino a quelli della tradizione tribale. Lo spazio introverso della casa si contrappone ai deserti sahariani delle riproduzioni appese alle pareti.
La tagelmust giace distesa vicino al
cappellino da beseball. I nativi del Niger – che sognano di tornare ad Agadez⁴ – siedono con i loro figli che nemmeno sanno dov’è, Agadez. Gli stessi bambini pensano e si esprimono in Italiano, mentre i genitori comunicano tra loro in Tamashek, la lingua berbera dei Tuareg.
Abiti tradizionali, flaconi di cosmetici, il velo islamico, l’aranciata nella bottiglia di plastica, un ritratto a matita, uno smartphone con la cover fucsia, la tovaglia con i motivi ladini distesa per terra sulla quale condividere lo stesso piatto di riso Jollof.
Difficile scorgere una logica in queste dicotomie, ma anche la soppressione di uno solo di questi termini svuoterebbe gli altri di una parte di senso.
Le immagini di Teo Zanin parlano di una complessità che attraversa piani differenti ma che appartiene intrinsecamente a ciò che si vede; non sottendono significati nascosti predeterminati, rappresentano in modo diretto l’essenza di quella che il più delle volte, nella Fotografia, è una verità solo presunta.
Ci sono fotografie del passato che riassumono alcune questioni di fondo che, nonostante il digitale, sono tuttora rilevanti sul piano della credibilità della Fotografia. Nell’autoritratto del 1839 in cui Hippolyte Bayard appare senza vita ⁴ egli è davvero morto? Certamente no, non avrebbe potuto aprire l’otturatore. Sulla scena del Boulevard du Temple che Daguerre riprese un anno prima dalla finestra del suo studio ⁶, c’era davvero un viavai di persone e carrozze oltre all’uomo con il piede sollevato per farsi lustrare la scarpa?
Certamente sì, anche se non si vedono. Il miliziano spagnolo che Robert Capa immortalò nel 1936 è stato davvero colto nell’istante in cui viene colpito a morte? Forse no, ma non è importante saperlo.
Come dire che, se il fotografo ha da sempre la legittima facoltà di ingannare (come nel caso di Bayard) – e
oggi più che mai – c’è chi, come Teo Zanin, decide di non farlo.
E in quel caso, se l’insidia c’è, appartiene all’ente sul quale il fotografo indaga (il miliziano di Capa, per esempio), oppure alla natura dello strumento (come nel caso di Daguerre, a causa dei lunghi tempi di esposizione della sua tecnica), ma non alla volontà di chi lo usa.
La tagelmust, che a casa di Tonfa sta vicino al cappellino da baseball del giovane figlio Omar, è la lunga fascia di cotone indaco avvolta sul capo dei Tuareg, un turbante ed un velo nello stesso tempo che copre il volto lasciando liberi solo gli occhi, riparando così dal sole e dalla sabbia del deserto. I pigmenti indaco di cui è tinta, insieme alle loro proprietà bene fiche, aderiscono in modo permanente alla pelle di chi la indossa. Come la fotografia di un passato vissuto, è un segno indelebile che portano con sé gli Uomini Blu, ovunque li conduca la loro natura nomade.
¹ Nel 1840 Bayard realizza un autoritratto in cui si finge morto; lo stesso è corredato da un In particolare nel secondo dopoguerra, alcuni semiologie riflettono sul tema, tra i quali Pierce su CHARLES S ANDERS P IERCE , in Opere (Nomenclature and Divisiuon of Triadic Relations, 1955), Bompiani, Milano 2003.
²Sono i tre elementi fondamentali attraverso i quali Roland Barthes definisce il processo fotografico dal punto di vista semiologico, in R OLAND BARTHES , La camera chiara (A chambre claire, Paris 1980), Einaudi, Torino 1980.
³Il 7 gennaio 2015 ci fu l’attentato rivendicato da Al-Qā’ida alla sede della rivista satirica Charlie Hebdo che divenne oggetto di un acceso dibattito sui rapporti tra Occidente e mondo Islamico.
⁴ Agadez è un comune urbano del Niger, capitale del Aïr, una delle federazioni Tuareg da cui provengono le famiglie che si sono insediate a Pordenone.
⁵ Nel 1840 Bayard realizza un autoritratto in cui si finge morto; lo stesso è corredato da un testo anonimo nel quale dichiara di essersi annegato per la disperazione dopo aver appreso che la paternità dell’invenzione della tecnica fotografica era stata riconosciuta a Daguerre e non a lui.
⁶ Il dagherrotipo del 1838 viene riconosciuto come la prima fotografia nella quale compare un uomo. Sulla scena erano sicuramente presenti le carrozze e altre persone lungo il boulevard, ma il tempo di esposizione lungo non consentiva ancora di “congelarne” il movimento.
⁷ Rimane ancora aperto il dibattito sulla veridicità della fotografia di Capa scattata durante la guerra civile spagnola.