Foto di “Ospiti in Arrivo”
Ho voglia di condividere con voi questi pensieri, al ritorno dalla Bosnia. Dopo troppo tempo torniamo in Bosnia, a Velika Kladuša. Il nostro primo appuntamento è con le persone di un campo, donne e bambini. Un campo “spontaneo” in mezzo alla campagna, con la possibilità di fare i fanghi ad ogni passo. Il giorno stabilito è prevista la visita di europarlamentari. Il campo viene sgomberato e rasato al suolo dalle ruspe. Meglio che gli europarlamentari non vedano troppo fango, le foto e le testimonianze di donne e bambini vengono male e qualcuno potrebbe rompere i ……. Le foto dello sgombero sono quasi “pulite”. Polizia, ruspe. Da noi parecchi vorrebbero che questa fosse la norma. A patto di essere dalla parte giusta della ruspa. Al confine sloveno ci fermiamo per attendere gli altri che arrivano da Trieste. Nella notte avvertiamo movimento. Dal bordo strada una decina di persone si appalesano. Pakistani. Sono arrivati. Forse. Se non verranno respinti. Dall’Italia, alla Slovenia, poi in Croazia e di nuovo in Bosnia. Il push-back. Questo infernale gioco dell’oca viene chiamato “il game”. Ma non è un gioco per occidentali, regole troppo complicate. A noi piacciono regole semplici, facili da ricordare. Alcuni le chiamano “slogan”. Eddie Vedder e Beyoncè ci portano al confine croato/bosniaco con la loro versione di Redemption Songs. Da un po’ è mattina. Passiamo, con il nostro carico di vestiti, scarpe, soldi. E Velika Kladuša si scuote la nebbia di dosso. Il primo giorno l’incontro con i bambini e le maestre della scuola elementare e media “Sead Ċehiċ” Grahovo. Il murale degli uccelli che volano tra i colori, i giochi con i libri e la tenda, l’incrociarsi dello strano esperanto bosniaco/inglese/italiano in cui alla fine tutti si capiscono. Da qui pare tutto facile, tutto possibile, tutto pare essere sempre stato così. Le maestre che cantano abbracciate canti tradizionali, con la libertà negli occhi, un’immagine strabiliante. Ci sentiamo parte di qualcosa. I discorsi si affastellano. La famiglia irachena che avevamo incontrato nel viaggio precedente, mamma, papà, cinque figli, quel pranzo con loro, i giochi con i bambini, i racconti del padre, i frammenti cinematografici dei loro gesti eleganti, semplici, amorevoli. Il loro “game”, tentato tante volte. Poi, la mamma arriva in Germania con un bambino, altri tre bambini bloccati in Croazia in un centro per minori, il padre con una bambina di nuovo in Bosnia, di nuovo al “game”.
Se questo è un uomo. La sera siamo stanchi morti, ma andiamo a scaricare tutto quello che abbiamo portato dall’Italia. Distribuiranno poi i volontari locali. Anche il casino che spesso fanno i volontari internazionali, qui, è un problema. Protagonismo e velleitarismo mischiati a voglia di aiutare. Qui è facile sentirsi rockstar, cavalieri del bene, ben pasciuti e benevoli. White people. L’importante sarebbe sentirsi anche idioti. Dopo un paio di minuti Il nostro amico Pixi non mancherà di ricordarcelo, insieme a tante altre cose, durante un’ora adatta a ricordi, amarezza, fratellanza, prese per il culo. Abbassare la cresta, “taliano”. Ricevuto. Qui hanno a che fare con un sindaco criminale di guerra. Dieci anni di galera in Croazia, altri da scontare anche in Bosnia. Ma immunità politica. Cosa vi ricorda? La mattina del secondo giorno ha il colore della nebbia, l’odore di caffè lungo, troppo lungo. Si fanno due squadre, troppe cose da fare, tanta gente da incontrare, un vortice. Gli squat. Una parola che riecheggia quasi i fumetti. Qui sono case abbandonate e fatiscenti, in luoghi nascosti, capannoni semidistrutti, luoghi dove trovare riparo, nascondiglio, o piantare tende nella boscaglia. E dove provare a pianificare per l’ennesima volta il “game”. Presto, che arriva l’inverno, la neve, settimane in viaggio a piedi nascosti nei boschi della paura, dei confini, della polizia, dei push/back. Alì occhi di carbone acceso esce da un tugurio con addosso una tunica. Fa un cazzo di freddo. In un minuto ci chiede scarpe e giacca, in altri cinque cibo e latte per i cuccioli che una cagna ha messo al mondo su uno straccio, fuori dalla porta. Siamo tutti sotto lo stesso cielo, Alì lo sa. Alì, venti anni, occhi di carbone acceso. Riusciamo a intervistare una donna afghana. In un inglese affaticato ci dice di guerra, talebani, donne, paura. E di quello che vorrebbe. Cioè tutte le cose che noi diamo per scontate. O i cui concetti a volte evochiamo a sproposito. Parlando a vanvera, per lo più. La sera ci accoglie un gruppo di donne fruitrici/volontarie che si occupano di sostegno alle donne colpite dal tumore al seno. Anche qui, come una secchiata di acqua fredda, ci schiaffeggia la mancanza di cure e strutture che noi diamo per scontate. Ci offrono cibi preparati da loro, cantiamo e parliamo. Odlićno. Le donne di Vareš, le loro marmellate, i calzini, la rakjia. Porteremo, non senza batticuore al confine, tutto in Italia, servirà a comprare una mucca e le piantine per la coltivazione delle fragole. Odlićno. I racconti di Bisera, madre serba, padre bosniaco, il ricordo di quando tutto inizió piano piano, con le narrazioni divisive, i miti fondativi, il nazionalismo, e poi la catastrofe. Virginia che riflette : è complesso per un popolo definirsi “vittima”. Già, è tutto troppo complesso, troppo pieno di implicazioni a tutti i livelli. Abbassare la cresta, “taliano”. Ricevuto. E le donne, le donne. Filtro e destino di vita e morte. Le donne vittime di guerra, che devono aiutare uomini vittime di guerra. Udine, torniamo. Con la cresta bassa.