«Pare di no, ma dire perché si dipinge una cosa invece di un’altra… è arduo perché sembra urgente, improrogabile e nello stesso tempo inutile. Una inutilità che deriva, al fondo, dall’impossibilità di determinare il peso della nostra presenza come “soggetto” – in un mondo caotico, brulicante, dove pare che niente sia “più importante”, dove sembra illegittimo parlare di un ordine primario…
Io vorrei che la mia opera di pittore, nel suo complesso, fosse soprattutto una testimonianza della mia non rassegnazione alla morte; voglio dire alla morte dell’uomo»
E ancora: «E’ solo nel lavoro, nell’esaltazione della ricerca formale che l’immagine si libera dai detriti della passione – nei casi più favorevoli; ma essa resta comunque, lo so bene, testimonianza bruciante della mia condizione.
E’ un limite? Forse, ma non posso farci niente.
E’ impossibile per me produrre delle opere in serie, e restare impassibile davanti a un mondo che si sfalda».
Ho incontrato questi due testi di Zigaina quasi per caso, e me ne sono subito impadronito, ringraziando la fortuna.
Ciò perché essi accompagnano perfettamente l’idea che mi son fatto della sua arte, in anni di frequentazione.
Il primo è ripreso dal catalogo del Premio Marzotto, in data 1968, il secondo da quello della mostra presso la Galleria Kara di Ginevra, nel 1991.
Essi hanno in comune l’allusione alla morte, che non è però la morte individuale, ma quella “totale”, quella che dipende dalla “bomba”, da quella bomba che, dopo Hiroshima, ci sta sopra la testa.
Gli anni sessanta di Zigaina sono occupati dal tema dei generali, delle donne assassinate, dei dormitori, delle ceppaie, delle fucilazioni e poi, verso la fine della decade, dai temi intitolati al colle di Redipuglia, alle anatomie, agli interrogatori, alle visitazioni, tutti temi che continuano dentro gli anni settanta.
Sono argomenti drammatici, alcuni dei quali sviluppano, mi pare evidente, la posizione dell’artista negli anni cinquanta, la quale cercava nell’attenzione alla vita popolare e contadina – i braccianti, le assemblee, i ritorni dai campi, gli inverni, le biciclette – le ragioni di una pittura che trovasse motivazioni anche morali, oltre che estetiche, che affermasse cioè la presenza di un’arte coinvolta con la storia: dopo la Resistenza, dopo le infinite sofferenze determinate dalla guerra.
Il tema dei generali è segnato da un irridente sarcasmo, quello delle donne assassinate sembra, nell’insistenza accanita del segno, voler mimare la stessa violenza dell’omicidio, i dormitori vivono in un desolato abbandono, il “Fucilato” del ’66 è una sorta di teschio, resto emergente dal buio della terra.
Anche le ceppaie che incontriamo nel periodo nulla hanno di naturalistico, bruciano e si disfano sembra per un disgregarsi interno, entro uno spazio quasi puramente mentale.
Tuttavia qui siamo ancora in presenza di qualcosa di “oggettivo”, di una serie di “dati” ancora in qualche modo riferibili ad uno sguardo “sociale”. Ciò rimane vero anche nella serie “Dal colle di Redipuglia”, ma solo perché inevitabilmente il pensiero va allo sterminato ossario della guerra: in realtà qui l’artista non guarda più da fuori, ma si immerge nella terra, come le reliquie, umane o animali, che immergendosi incontra. Di fatto adesso la domanda posta al mondo non ha più radice sociologica, ma antropologica, la ragione di ciò che accade non è più chiesta soltanto al milieu sociale, ma all’uomo per come è fatto, e alla vita stessa. Negli “interrogatori”, tema formidabile, sono coinvolti il teschio e l’insetto, l’anatomia e l’insetto, allo stesso titolo, l’anatomia poi è uno scarnificare, un penetrare, un porre domande sui meccanismi non soltanto fisiologici dell’umano. Che non è l’unico esistente ad essere interrogato, nelle tante “anatomie” e “visitazioni” dipinte e incise da Zigaina: anche il paesaggio viene interrogato e notomizzato perché tutto entra nel grande sforzo della conoscenza che indaga il mistero dell’universo, di cui l’uomo è parte, non si sa quanto essenziale.
Questo atteggiamento interrogativo, e ormai compiutamente simbolista, continua sino alla fine, il “mondo che si sfalda” – come dice la seconda citazione – è quello che, negli anni attorno al 1990, dà vita all’intensissima serie denominata Verso la laguna, oppure alle Ceppaie in sogno, o alle opere riferite al tema del Padre e dei Girasoli: qui le ceppaie sono mondi, le astronavi sono cuori, la fuga dei solchi e dei canali allude ad orizzonti non più geografici ma mitici, le grandi ombre serali involgono la realtà in un mistero che tuttavia non respinge, piuttosto invita ad entrare: sono opere sontuose, in bilico tra desiderio di vita e pulsione di morte, tra memoria e sogno, piene della luce e del buio dei prati dei campi e della laguna, opere che noi sentiamo profondamente friulane, e nello stesso tempo capaci di parlare a qualunque sensibilità e intelligenza del mondo.
Indice
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